Una giornata particolare.
Vivere e/è lottare dalla fabbrica recuperata Ri-Maflow.
 

Raramente il cielo di Milano, e della sua nebbiosa area metropolitana, è aperto e stellato come questa notte. Ma forse il cambiamento climatico ha portato anche questo.

Dario Firenze e Piero Maestri

Comunque alzarsi alle sei della mattina vedendo questo cielo, aiuta a pensare ad una giornata bella e importante, un augurio da vedere ed ascoltare.
A quest'ora, in questa giornata, il bar della fabbrica recuperata Rimaflow è già aperto. Beppe già sta preparando colazioni, malgrado sia andato a letto meno di tre ore prima; "tanto non riuscivo a dormire". Nemmeno Pippo è riuscito a dormire, malgrado fosse tornato a casa sua, "meglio stare qui che rigirarsi nel letto". E così sta ravvivando la brace dentro il cassone di ferro all'entrata della fabbrica, residuo del passato industriale di questi capannoni. Quel falò servirà a scaldarsi durante il presidio di oggi. Come in una foto in bianco e nero di tante fabbriche occupate, presidiate, difese nei primi anni della crisi dagli anni '70, in Italia e nel mondo. Memoria e immaginario operaio.

Nel giro di un paio d'ore lo spazio all'ingresso della fabbrica, proprio dopo i cancelli, si riempie di tante persone. Centinaia di persone, alle 8 del mattino di un giorno feriale, a Trezzano sul Naviglio, abbastanza distanti dalla metropoli milanese.
Giovani, non giovanissime/i; meno giovani ancora al lavoro; anziane/i militanti e attiviste/i di tante lotte ("e comunque io sono vecchio, non anziano" dice Fabio, 81 anni di lunga militanza, politica e sindacale). E tante provenienze sociali e politiche, della larga sinistra, del volontariato sociale cattolico, di sindacati di base e confederali (dalla Cisl all'Usi), di spazi sociali autogestiti, Non Una di Meno con i panuelos rosa che spuntano qua e là. E, come ha sottolineato una compagna, "ricordatevi anche di noi tante/i cani sciolti".
E forse sono la maggioranza di quelle/i presenti nel cortile della fabbrica RiMaflow.
A spingere tutte queste persone a rispondere alla chiamata delle lavoratrici e lavoratori della RiMaflow per essere in tante e tanti a presidiare i cancelli della fabbrica per evitare uno sfratto annunciato, sembra una consapevolezza individuale, prima che un'appartenenza politica e sociale definita. La consapevolezza di dover scegliere da che parte stare, di comprendere perfettamente l'esperienza molto particolare (non unica, ma certo esemplare) di queste lavoratrici e lavoratori. Comprenderla e condividerla, perché hanno visto la fabbrica, hanno conosciuto chi ci lavora – e magari hanno conosciuto Massimo, ancora agli arresti domiciliari, in una delle tante lotte che lui ha seguito e condiviso. E perché, vivendo in un paese senza sinistra (come titola il primo numero di Jacobin Italia), sono tutte e tutti qui a difendere un'esperienza che sentono vicina, che parte da bisogni che tutte e tutti vivono, che vorrebbero per una volta vedere che si può evitare di essere sconfitte/i, cancellati, con l’amaro in bocca e poco più.

Provare una volta a essere davvero convinte/i che "la lotta paga". Perché siamo talmente abituati a ripetercelo e perdere, che ormai è una litania poco sentita, un artificio retorico per mantenere la propria routine di iniziative chiuse e poco comunicative. RiMaflow rappresenta per molte/i in quel cortile una soggettività che possono sentire vicine, loro. Perché non è una soggettività immediatamente incasellabile, dentro un settore sindacale o partitico, dentro uno spazio di movimento specifico o un asfittico recinto di volontarismo senza prospettive. È un'esperienza aperta, che parla a tante e tanti; che non per questo rifugge la battaglia politica, ma la fa dal basso a sinistra, nella mobilitazione e nella costruzione di un'alternativa praticabile. Un’alternativa di economia solidale, sociale e popolare reale e non simbolica, che costruisca per davvero un lavoro senza padroni capace di resistere alle logiche del mercato e opporvisi. Un alternativa politica e sociale ampia, per costruire dal basso gli strumenti per una nuova società, senza sfruttamento e oppressione. Si sente – parlando con chi è presente, ascoltando i commenti, le battute, anche percependone le ansie – che ritengono tutte e tutti che sarebbe un'ingiustizia intollerabile eliminare un'esperienza così.

Svetta sulle teste delle persone raccolte all’ingresso della fabbrica uno striscione, scritta rossa su telo bianco: “Le nostre vite valgono più dei loro profitti”. Anche questo uno slogan antico, circolato in lungo e in largo, parole d’ordine che potrebbero suonare astratte e di principio, dopo anni recenti in cui chi fa profitto si nutre senza ostacoli rilevanti ed in modo sempre più complessivo delle nostre vite. Ma oggi, in una maniera speciale, smette di essere semplicemente uno slogan, e si incarna in corpi vivi, stretti e accalcati in questa fabbrica recuperata, che attraverso la loro presenza e la loro volontà praticano quelle parole. Sono le nostre vite, diverse, sfruttate in vario modo, oppresse e violate, a opporsi a chi oggi vuole cancellare Ri-Maflow per fare profitto. E allora quello striscione, e le immagini che ritraggono questa scena in carne ed ossa, arrivano dritte allo stomaco, riempiono di emozione, danno ossigeno.

E la lotta paga. Ma cosa significa? Quale lotta? E in che senso "paga"?
Non entriamo qui nel merito dell'accordo strappato da lavoratrici e lavoratori Rimaflow alla grande e potente UniCredit. Naturalmente il merito è fondamentale in ogni accordo, e in questo ancora di più (stiamo parlando della prospettiva di lavoro, reddito, socialità anche, di decine di donne e uomini e le loro famiglie).
L’accordo di oggi è un pareggio fuori casa all’ultimo secondo, in attesa della partita di ritorno; un tiro da tre punti sullo scadere che raggiunge la squadra avversaria, lo scatto negli ultimi metri della corsa raggiungendo un avversario che sembrava pronto a tagliare il traguardo: ottimo risultato, ma il match si deve ancora chiudere e richiede un impegno forte per non perdere concentrazione e la forza del collettivo.
Qualcuna/o potrebbe pensare che non è poi una gran vittoria concordare un'uscita soft, che si deve resistere fino all'ultimo uomo e all’ultima donna. Che non si può concedere nulla ai padroni. Non vogliamo farci una gran teoria sopra. Un accordo implica un "compromesso" e se rende possibile perseguire in migliori condizioni i propri obiettivi, è certamente un buon accordo. E questo lo è.

Ma ci interessa riflettere collettivamente sul senso del concetto "la lotta paga".
Si poteva raggiungere lo stesso accordo senza mobilitazione? Naturalmente non abbiamo prove dialettiche e scientifiche per confutare questa ipotesi. Ma crediamo che in questo caso non sarebbe stato possibile. E non perché le più di 300 persone davanti ai cancelli avrebbero fermato davvero uno sgombero violento (niente è certo, ma difficilmente avrebbero potuto resistere in maniera permanente). E nemmeno perché il numero di per sé abbia fatto la differenza.
No, la forza della mobilitazione sta nella grande solidarietà che ogni giorno viene dimostrata da persone le più diverse. Nelle tante iniziative di raccolta fondi in giro per l'Italia, nelle migliaia di firme e nel sostegno economico. In una campagna che ha raggiunto il suo apice in una giornata di mobilitazione di rara portata, rendendo scomodo e poco conveniente per Unicredit un intervento manu militari. Sta soprattutto nel aver raccolto soggettività così diverse, così spesso in conflitto tra loro, la rilevanza di questa mobilitazione. In questo caso un asseblaggio virtuoso e non un insieme senza obiettivi.
Davvero sono state le ragioni e le realizzazioni di questa piccola ma combattiva comunità di lavoratrici e lavoratori, l'intelligenza loro e di chi si è assunto l'impegno di garantirne continuità e apertura, di chi mette a disposizione quotidianamente tempo e risorse per questa esperienza.

La lotta ha pagato perché è sembrato a tante/i, anche tra chi ha avversato il progetto RiMaflow, che non fosse possibile pensare ad una rimozione di questa esperienza.
E la lotta ha pagato perché in queste settimane è stato chiaro che ci sarebbe stato davanti ai cancelli uno spaccato sociale e politico forte, anche sul piano culturale e narrativo.
Non vogliamo sottovalutare la presenza di tante realtà sindacali, politiche, associative, di movimento, se scegliamo di concentrare un po' di più l'attenzione sulla rete Fuorimercato – autogestione in movimento. Perchè mai come in questa occasione ha mostrato cosa significhi ogni termine del suo nome: una rete nella quale ogni nodo sa di dover difendere tutti gli altri, sa di dover mostrare all'esterno la forza del suo tessuto, e vuole mostarla ancora di più al resto della rete, perché questa è la solidarietà, immediata, di chi è parte dello stesso percorso; fuorimercato, perché sono le esperienze di costruzione di un'economia alternativa, ancora deboli e spesso embrionali, che messe insieme possono essere efficaci, avere un effetto di moltiplicazione e di diffusione; autogestione perché non c'è mai un "ordine di scuderia" a far partire solidarietà e impegno comune, ma l'assunzione di una responsabilità collettiva, di un operare insieme, di un sostegno reciproco; e in movimento, perché solo muovendosi, spostando in avanti il proprio corpo collettivo, nel camminare insieme sta la forza della rete.
Il mutualismo, su cui questa rete costruisce pratiche e pensiero su tanti e diversi piani (economico, sociale, culturale, sindacale, politico), si è espresso anche in questa giornata, nello stringersi per difendere un’esperienza e un gruppo di lavoratrici e lavoratori in quel legame reciproco, esprimendo le sue potenzialità conflittuali respingendo con la sua forza un attacco non altrimenti superabile. Vedere a Trezzano sul Naviglio, in un giorno lavorativo, compagne e compagni di Contadinazioni da Palermo (Campobello di Mazara), di Diritti a sud da Nardò, di Solidaria e Bread & Roses da Bari, di Communia da Roma, della fattoria senza padroni di Mondeggi, di Sobilla da Verona, della Casa del Popolo Venti Pietre da Bologna, è stata una sferzata di energia per tutte e tutti. E ha reso evidente cosa può essere questa rete.
In questi mesi abbiamo fatto risuonare in diverse iniziative, articoli, locandine le parole “Difendere il mutualismo, difendersi con il mutualismo”. Anche queste parole con questa giornata si sono fatte realtà e non sono rimasti enunciati di principio sparsi al vento.

Il “Primo incontro internazionale Politico Artistico Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano” svoltosi in Chiapas l’anno scorso e convocato dalle donne zapatista, rilanciava queste parole
“Acordamos vivir, y como para nosotras vivir es luchar, pues acordamos luchar” (“Abbiamo deciso di vivere, e siccome per noi vivere è lottare, abbiamo dunque deciso di lottare”).
Anche le lavoratrici e i lavoratori di Ri-Maflow hanno scelto di vivere e di lottare, recuperando la propria fabbrica in autogestione, e difendendo il proprio lavoro senza padroni e la propria vita in esso fino ad oggi.
Qui si trova la vittoria delle nostre vite contro i loro profitti, nella scelta di vivere in lotta contro chi ci vuole rubare la vita, di difenderla da chi cerca di distruggerla.
Per questo la giornata di ieri risuona forte per tutti e tutte quelli/e che ci sono stati/e, e per quelli/e che l’hanno seguita da lontano: perché c’è questa scelta, vincente, di vivere e lottare che sentiamo profondamente tutti e tutte.

Si, la lotta paga. E non solo perché fa ottenere buoni risultati, fa avanzare i propri obiettivi e difende le proprie esperienze; ma soprattutto perché rafforza il nostro ri-conoscerci, la nostra responsabilizzazione collettiva, la nostra pratica di relazioni. E questo anche fuori della rete.
E il tema di vincere una battaglia non è cosa di poco conto, di questi tempi e tenendo conto che nel parlare mentre camminavamo in corteo per Trezzano per festeggiare il rinvio dello sfratto, immersi nel sole e circondati dalle carcasse svuotate e abbandonate del tessuto industriale fino a pochi anni fa attivo, ci si diceva, con allegria ed emozione sentita, dalle giovani compagne a chi milita da decenni: “E’ la prima vittoria della mia vita”.
Leggere in centinaia di post sui social che "RiMaflow ha vinto", "Noi abbiamo vinto" non da l'idea di una pericolosa illusione collettiva, ma di una energia che si rinnova e che permette di pronunciare quelle parole che altrove, dallo Stato Spagnolo al continente latino americano, risuonano potentemente da anni: sí, se puede.

 

 

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