Una proposta di risanamento dal basso

Rete "Giustizia per Taranto"

Il “caso Taranto” risulta piuttosto emblematico di come la politica si faccia strumento del capitale per la preservazione dell’attuale modello di sviluppo. La questione Ilva ha costituito in tal senso un osservatorio puntuale in questo senso. L'intervento del rappresentante di “Giustizia per taranto” all'assemlea nazionale di Fuorimercato a Conversano.

Ai tempi dell’edificazione dell’allora Italsider già si era a conoscenza dei danni che avrebbe prodotto sugli abitanti: si sono scoperti documenti a questo riguardo che furono tenuti nascosti per far prevalere la volontà di costruire più a ridosso della città, ma in modo più efficiente per la fabbrica.

Un silenzio lungo quarant’anni è calato su tutto questo e sulle conseguenze di questa scelta.

Negli anni ’90 si iniziano a registrare le prime azioni di investigazione dal basso che producono le prime denunce ed i primi provvedimenti giudiziari. A questo la politica, a tutti i livelli, risponde infondendo terrore rispetto al cambiamento preteso dal territorio. Si ripete che “senza l’Ilva la città andrebbe al collasso economico e occupazionale” e che è “grazie ad essa che il sistema sociale locale regge”. Si millanta che la presenza della fabbrica fosse antecedente a quella del quartiere Tamburi, che le bonifiche presentino costi insostenibili, che l’acciaio sia strategico per il Paese e che Taranto abbia “vocazione industriale”.

In tal modo è risultato chiaro come la denuncia non fosse più sufficiente a ottenere correzioni alle storture causate dai grandi insediamenti industriali. La città si è pertanto organizzata ed ha iniziato a stilare documenti di contro-narrazione per imporre la verità dei fatti rispetto alla propaganda e, addirittura, a redigere veri e propri piani di riconversione con indicazione di strumenti, costi e opportunità di reperimento dei fondi necessari.

Dal basso si fa ciò che politica non ha la volontà e la capacità di fare.

La ricerca della verità dimostra così che il risanamento del territorio costerebbe meno di quanto non si stia spendendo per il salvataggio della fabbrica e che questo è necessario solo al fine di rifondere le banche dell’investimento fatto, appunto, per salvarla. Tutto ciò nonostante nel momento delle erogazioni l’azienda fosse già sull’orlo del fallimento. Classico esempio del capitalismo all’italiana, con privatizzazione dei profitti e suddivisione delle perdite.

Gli approfondimenti danno modo di scoprire che l’insediamento della fabbrica non era affatto precedente a quello delle case del quartiere Tamburi e che Taranto non produce alternative proprio perché è più conveniente mantenerla in stato d’emergenza, al fine di costringerla ad accettare l’inaccettabile. Risulta infatti che sia l’ultima città della Puglia ad attingere dai fondi europei per progettualità alternative, sia a livello pubblico che privato. C’è addirittura uno studio prodotto da due ricercatrici tarantine che dimostrare la dipendenza culturale e mentale dalla presenza industriale: si chiama path dependence ed è causa delle ridotte capacità creative, imprenditoriali e di resilienza dei territori in cui insistono grossi insediamenti industriali.

Nei piani vengono altresì resi accessibili i tredici decreti salva-Ilva, al fine di far comprendere l’azione statale ai danni della città e illustrati tutti i costi sociali e sanitari patiti dal territorio, nonché quelli del salvataggio e dell’esposizione bancaria nei confronti di Ilva.

La proposta che parte da Taranto attraverso questi lavori collettivi è quella di dar luogo ad un grande piano decennale di risanamento di tutti i territori inquinati d’Italia, con la chiusura definitiva delle fabbriche incompatibili con la vita umana e con l’ambiente. Uno studio di Confindustria del 2006-14, anch’esso ripreso nel “Piano Taranto”, ha dimostrato come le bonifiche costituiscano proprio la sfida economica di questi anni. A fronte di una spesa stimata, per tutte le realtà inquinate, in 9 miliardi di euro (di cui un terzo occorrerebbero per Taranto), la metà rientrerebbe in fiscalità ed oltre il doppio in produttività; con un’occupazione pari a circa 200.000 unità negli svariati settori coinvolti. Un investimento percorribile ed in grado di proiettare il Paese verso economie etiche ed ecologiche dalle importanti prospettive e, soprattutto, in grado di restituire i territori agli abitanti generando nuove opportunità di benessere sociale ed economico diffuso.

Occorre al contempo irrobustire la rete delle città inquinate, dei movimenti in lotta per il clima e l’ambiente e delle realtà mutualistiche e pretendere serie e concrete politiche di transizione energetica, che incentivino le economie green, rendendo fortemente sconvenienti quelle fossili, con un traguardo perentorio per la messa al bando definitiva dei combustibili fossili, alla base di tutte le vertenze ambientali d’Italia e del mondo.

 

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