Cura collettiva e fare sindacato per cambiare il welfare #2 - Salute mentale e resilienza neoliberale

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni tenute durante la formazione sindacale "Cura collettiva e fare sindacato per cambiare il welfare" avvenuta all'ex Asilo Filangieri di Napoli il 23-24 aprile scorso. Ecco il secondo contributo della I sessione "La crisi del welfare" di Dario Firenze dal titolo "Salute mentale e resilienza neoliberale"

L’intervento che voglio condividere oggi si basa su tre piani intrecciati: una fotografia delle condizioni di salute mentale collettiva e sociale che stiamo vivendo in questi anni, in particolare dopo la pandemia; le condizioni dei servizi di salute mentale istituzionali; la funzione del concetto e delle politiche della resilienza sulla salute mentale di ognunə di noi e alcune tracce di riflessione sulle prospettive e le pratiche di cura collettiva e il senso importante che può avere nel prossimo futuro.
La salute mentale in Italia dall’inizio della pandemia

Sono diverse ormai le ricerche che analizzano l’impatto della pandemia sulla salute mentale della popolazione. Senza presumere di dare un quadro esaustivo, è necessario partire da alcuni dati per comprendere la natura e la dimensione dell’esperienza psichica che andremo lungo questo intervento.
In una ricerca pubblicata dalla rivista scientifica The Lancet nel settembre 2021, i casi di depressione sono aumentati del 28% e di ansia del 26% durante la pandemia. Nello stesso periodo, racconta Annalisa Camilli sul settimanale L’Essenziale, secondo uno studio condotto dall’università canadese di Ottawa il disturbo da stress post-traumatico, l’ansia e la depressione sono state rispettivamente cinque, quattro e tre volte più frequenti nella popolazione rispetto al passato.
Secondo il sondaggio Piepoli condotto per il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi la pandemia ha influito fortemente sulla salute mentale in Italia: il 21% dei pazienti ha interrotto il trattamento per problemi economici, il 27,5% delle persone non lo hanno nemmeno avviato, per le medesime difficoltà economiche.
L’utenza è generalmente aumentata, in particolare tra i giovani di 18-24 anni, le donne, il cosiddetto ceto medio - impoverito - e tra lavoratrici e lavoratori. In calo, al contrario, le richieste di intervento psicologico per gli over-55.

In particolare, la pandemia da Covid-19 ha aumentato i problemi d’ansia (+83%), i disturbi dell’umore/depressione (+72%), quelli dell’adolescenza (+62%). In aumento anche i problemi di coppia e con i figli (+49%), i disturbi dell’infanzia (+27%) e i disturbi legati a una patologia fisica (+19%).

Questa fotografia sintomatologica rappresenta solo la punta dell’iceberg della pandemia, che analizzeremo qui come trauma collettivo e continuativo.
Un trauma che è allo stesso tempo simile ad altri eventi catastrofici tipici, come ad esempio i cataclismi naturali (terremoti, alluvioni), ma ha anche una sua forte specificità: è stato e continua ad essere un evento traumatico che non vede un episodio singolo originario, che permane poi come ferita psichica nella mente delle persone e che riemerge con flashback, pensieri intrusivi, timori di rivivere la medesima situazione, ma una esperienza continua di micro e macro episodi quotidiani di varia natura e intensità, da ciò che viviamo direttamente a ciò che incontriamo sui social network e sui mass media in generale, che incidono continuativamente sull’esperienza delle persone. Si viene così a creare una vera e propria atmosfera traumatica in cui siamo immersə quotidianamente da due anni a questa parte.

Lo stato dei servizi pubblici di salute mentale

Questa ondata di sintomi psicologici legata alla pandemia arriva in una specifica fase dei servizi di salute mentale nel nostro paese.
In Italia, la spesa regionale per la salute mentale è inferiore al 10% della spesa per questo tipo di servizi nei paesi ad alto reddito: si tratta del 3,46% della spesa totale destinata alla salute (circa 4 miliardi di euro come riportato dal Rapporto salute mentale del 2017), inferiore al 5% che i presidenti delle regioni si erano impegnati a indirizzare a questi servizi più di vent'anni fa.

Sono 130 mila lə psicologə che lavorano nel nostro paese, ma solamente il 5% della categoria lavora in strutture pubbliche. Viviamo dunque un taglio al minimo del personale psicologico pubblico e una limitazione di fatto del grosso degli interventi all’ospedalizzazione e alla riabilitazione psichiatrica.

La pandemia ha semplicemente confermato e acuito un problema strutturale di accesso universale alle cure psicologiche, che è al contrario radicalmente determinato dalle disuguaglianze di classe: chi è in grado di pagare accede ai servizi privati (in una media di 80-100 euro a seduta per un percorso di psicoterapia privata in una città come Milano), a tuttə lə altrə restano solo strutture pubbliche sovraccariche, gli psicofarmaci – il più diffuso «supporto psicologico» a buon mercato – o la rinuncia alle cure. La salute mentale oggi non è approcciata come un diritto, ma bensì come una merce da consumare, un valore di scambio sul libero mercato.
Si è inserito qui l’acceso dibattito sul cosiddetto “Bonus psicologo”, prima cancellato dalla manovra finanziaria e poi riammesso e quasi pronto ed operativo per essere richiesto.
Una misura modesta, 20 milioni complessivi per un bonus che potrà arrivare a 600 euro a persona, parametrato alle diverse fasce Isee per sostenere le persone con il reddito più basso e sarà escluso dal bonus chi ha un Isee superiore ai 50mila euro. ll contributo punta a sostenere le spese fino a dodici sessioni di psicoterapia, ipotizzando che la tariffa minima delle sedute si attesti intorno ai 50 euro l'una (come abbiamo visto non è proprio così). Le sedute di psicoterapia saranno fruibili presso specialisti privati iscritti all'albo degli psicoterapeuti [fonte Sole24].

Seppur connesso a una misura con evidenti limiti, questo dibattito ha però messo al centro le necessità di salute mentale della popolazione tra gli effetti che abbiamo descritto, portando di fatto alla sua riammissione come misura necessaria, che avrà comunque una funzione di supporto minimo.

Qual è il problema? Che la cura e tutela della salute mentale della popolazione con questa misura viene confermata come una merce spendibile sul mercato, una misura monetaria che alimenta il mercato privato e concepisce gli interventi come un “cerotto” della durata minima (6 mesi/1 anno di fatto) per poter “smaltire” al più presto gli effetti e rientrare il meno angosciatə possibile al lavoro produttivo o riproduttivo.


Resilienza neoliberale

Alla luce di tutto ciò risulta centrale il concetto di resilienza connessa alla salute mentale in questa fase, che non a caso è una delle parole chiavi del nome italiano del recovery fund per uscire dalla crisi della pandemia, il Piano di Ripresa e Resilienza Nazionale.

Partiamo da una definizione: il concetto di resilienza ha innanzitutto un originario utilizzo nell’ambito delle scienze chimiche e fisiche in quanto proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi,  di ‘rimbalzare indietro’ (bouncing back) di fronte a un impatto.
Questa specifica proprietà ha trovato fortuna nella sua riconcettualizzazione in ambito psicologico, a partire da alcune ricerche sulle esperienze di bambinə esposti a situazioni a rischio (figliə di genitori con schizofrenia, deprivazione economica e sociale) che non dimostravano nessun problema nel proprio percorso di sviluppo, ma al contrario avevano maturato alte competenze. E’ così che attraverso i lavori di alcuni psicologə, come Garmezy, Werner e Smith, Cyrulnik, il concetto di resilienza si collega agli studi sui vissuti di trauma nell’infanzia, nello studio di come bambinə inseritə in contesti traumatizzanti utilizzino le proprie risorse interiori per sopravvivere e trovare un nuovo equilibrio, ristrutturando la propria identità e psiche e uscendone rafforzatə invece che fragilizzatə.

Da questi studi si diffonde l’utilizzo della resilienza per nominare la capacità umana diffusa e condivisa nel reagire alle situazioni avverse, concetto oggi ossessivamente presente in moltissimi studi, e diffuso anche nel linguaggio dell’opinione pubblica, nei media mainstream e sui social network, diventando oramai un concetto di uso comune.

Ed è in questa età d’oro della resilienza che hanno cominciato ad emergere diverse analisi critiche del concetto, nel tentativo di analizzare più a fondo perché le dinamiche della società attuale abbiano così necessità di persone resilienti.
Mark Neocleous, docente e ricercatore di critica dell’economia politica, analizza come il concetto di resilienza sia ormai ossessivamente presente non solo nelle ricerche psicologiche sul trauma, ma anche nei piani di sicurezza occidentali e nei programmi di ristrutturazione economica del Fondo Monetario Internazionale (FMI). E’ infatti su due piani che la resilienza sembra essere di grande interesse a livello istituzionale e delle organizzazioni internazionali: il piano della sicurezza e quello dell’economia e del lavoro.
Sul piano della sicurezza nazionale, dai tempi dell’11 settembre e dell’attacco alle Torri gemelle sviluppare forme di "resilienza umana e sociale" e di "resilienza comunitaria" risulta fondamentale per rendere le popolazioni maggiormente preparate a potenziali attacchi terroristici e disastri di varia natura, essere sempre pronti a reagire a un “disastro sconosciuto”. Come spiega Neocleous, “ la resilienza impegna e incoraggia una cultura della preparazione. Lo stato assume ora che uno dei suoi compiti chiave è quello di immaginare lo scenario peggiore, la catastrofe in arrivo, la crisi a venire, l'attacco incombente, l'emergenza che potrebbe accadere, è possibile che accada e probabilmente accadrà, tutto al fine di essere meglio preparati.”

Sul secondo piano economico, Neocleous analizza come la resilienza venga studiata e proposta in ambiti di ricerca economica accademica così come sul sito dell’FMI, nei gruppi di lavoro del Wolrd Economic Forum e della Banca Mondiale, allo stesso tempo come obiettivo da raggiungere per le economie locali e a livello internazionale e capacità fondamentale di risposta delle popolazioni più povere alle esigenze dell’economia mondiale. La Banca Mondiale ha proposto l’idea che la resilienza è ora il mezzo per "far crescere la ricchezza dei poveri".

L’essere resilienti diventa in queste ricerche e proposte una caratteristica fondamentale per “sopravvivere” al mercato del lavoro, alle sue crisi e alle sue esigenze, diventando soggettə adattabili a tutto. Spiega Neocleous che “i buoni soggetti "sopravviveranno e prospereranno in qualsiasi situazione", "raggiungeranno l'equilibrio" tra i vari lavori precari e part-time che hanno, "supereranno gli ostacoli della vita" come affrontare il ritiro dal lavoro per anzianità senza una pensione, e semplicemente "riprendersi" da qualsiasi cosa la vita gli proponga, che si tratti di tagli ai sussidi, congelamento dei salari o crollo economico globale.”

In questa analisi critica di Neocleous appare dunque chiaro come la capacità resilienti delle persone, e in particolare di lavoratrici e lavoratori, siano una posta in gioco assolutamente centrale per la gestione delle crisi strutturali del capitalismo, come della gestione emergenziale di fronte all’epoca delle catastrofi in cui stiamo vivendo. In questo senso, come sostiene Neocleous, “la resilienza non è altro che un'apprensione del futuro, ma un futuro immaginato come un disastro e poi, cosa più importante, come recupero [recovery] dal disastro”.

In questa ingiunzione alla resilienza come caratteristica cruciale per sopravvivere al meglio nel mercato, emerge anche il tema di che tipo di agency, cioè di capacità di agire, viene sviluppata in questo contesto. L’antropologa Ilana Gershon la definisce agency neoliberale, una capacità di agire di un Sé prettamente individuale e che si muove come un agente di mercato, valorizzando le proprie competenze e reagendo nella maniera più consona alle proprie relazioni con gli altri agenti. Noi tuttə subiamo questa pressione sociale e strutturale, nella nostra formazione, nei luoghi di lavoro, ai messaggi dei mass media, alle relazioni quotidiane, a costruire un Sé neoliberale e resiliente, per farcela a tutti i costi.

Esiste però un’ambivalenza in questa resilienza neoliberale: insieme alla centratura sull’essere pienamente funzionali e in grado di superare qualsiasi disastro, si intreccia la lotta per la propria sopravvivenza e per riappropriarsi di quel potere su di sé e sulla propria vita. La costruzione psichica della soggettività subalterna nei suoi rapporti sociali di genere, razza, e classe vive di un’oscillazione continua tra questi due aspetti, in una espressione di un un’agency come “agire e stare nel mondo” che vive di un conflitto interiore permanente: il desiderio di corrispondere a ciò che viene richiesto dalla società capitalistica e di sfuggirgli, di riappropriarsi di sé stess*.


L’uscita d’emergenza delle pratiche di cura collettiva

E’ tempo di riconoscere la dimensione di riadattamento sociale nei meccanismi di sfruttamento e dominio che le politiche neoliberali della cura impongono sulle nostre vite. Bisogna riconoscere dunque che i sintomi che viviamo, da prima della pandemia e che con essa si sono estremamente amplificati, non sono semplicemente individuali, come allude la prospettiva della resilienza neoliberale, ma sono sociali e potremmo definirli segni della vita psichica dello sfruttamento, la nostra esperienza e reazione ai vissuti di dominio, trauma, violenza, ipersfruttamento che non sono casuali ma determinati politicamente e socialmente.

Ed in questo possiamo riconoscere che anche nella resilienza come strategia di sopravvivenza per non soccombere e nella sua agency, per quanto connessa alle esigenze capitalistiche e neoliberali, c’è anche un percorso di resistenza.

La domanda è: come andare oltre la sopravvivenza individuale? Come costruire dei luoghi, delle relazioni e degli strumenti concreti che possano connettere queste resistenze individuali, sottrarle alle logiche di mercato e formarne di collettive?

La risposta a questa domanda può vedere una fondamentale alleanza tra lavoratrici e lavoratori della salute mentale, dentro i servizi pubblici e al di fuori di esse, le numerose esperienze di sportelli di intervento solidale di cura psicologica sorte in questi anni, le esperienze di autogestione, mutualismo, sindacalismo conflittuale e sociale che da prima della pandemia lavorano per ricostruire relazioni alternative nella frammentazione estrema che domina le città e le campagne.
Nel presente e nel futuro sta in queste pratiche la possibilità di costruire un’uscita di emergenza per liberare la salute mentale di tutt*.

 

Riferimenti bibliografici:

“L'essenziale”, 8/01/2022, articolo di Annalisa Camilli “Il male di cui non ci si prende cura”

Cyrulnik, B.,  Il dolore meraviglioso, Frassinelli, 2000.

Garmezy, N., << Stress, competence and development: continuities in the study of schizophrenic adults, children vulnerable to psychopathology and the search for the stress-resistant children >>, American Journal of Orthopsychiatry, 57, 159-174, 1987.

Werner, E., & Smith, R., Vulnerable but invincible: A Longitudinal Study of Resilient Children and Youth, Adams Bannister Cox Pubs, 1989.

Neocleous, Mark, “Resisting resilience”, Radical philosophy, 178, pp. 2–7, 2013.

Gershon, Ilana, “Neoliberal Agency”, Current Anthropology, 52 (4), pp. 537-555, 2011.

 

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