Ripubblichiamo verso l'assemblea nazionale di Cinisi questo articolo di Sara Farris e Mark Bergfeld uscito sul numero 7 della rivista Jacobin Italia.
La crisi sanitaria data dalla pandemia di Covid-19 ha dimostrato la centralità per la tutela e la riproduzione della vita dei cosiddetti lavori essenziali, dal lavoro in agricoltura alla logistica, dalle pulizie al lavoro di cura alla persona e in sanità. Ma questa nuova centralità non ha fatto i conti con le pessime condizioni di lavoro e le mancanze di diritti di queste lavoratrici e lavoratori. Che conseguenze ha avuto questa rivalutazione di lavori considerati tra gli ultimi della scala gerarchica? Quale funzione hanno questi specifici lavori) settori lavorativi nel sistema capitalistico e nell'economia di mercato? Come sostenere le lotte, le rivendicazioni e le necessità di queste lavoratrici e lavoratori e costruire forme sindacali che mettano al centro la riproduzione sociale e della vita? Partiremo dalle riflessioni di Farris e Bergfeld per ragionare collettivamente e provare a trovare risposte di analisi e nelle pratiche.

Effetti radicali della pandemia: salta il nesso tra salario e produttività, cadono le barriere tra attività intellettuali e manuali, viene sconvolta la gerarchia delle competenze. E il lavoro di riproduzione si conferma centrale

La crisi generata dal Covid-19 sta avendo risvolti tragici per i lavoratori e le lavoratrici. Mettere a repentaglio la propria vita per un salario e vedere i propri cari morire, rischiare la disoccupazione e l’insicurezza di un reddito, non sapere come sfamare i propri figli e figlie, né come educarle in tempi di didattica a distanza: questi sono alcuni dei problemi che la working class si trova davanti. Eppure la crisi fa prefigurare anche alcuni esiti contraddittori (e potenzialmente interessanti) nel mondo del lavoro. La pandemia sta dissolvendo davanti ai nostri occhi le fondamenta su cui è costruita la tradizionale divisione tra lavoro manuale e intellettuale. In particolare, sta mettendo in discussione la legittimità di una gerarchia delle competenze che mette sul gradino più basso tutte le abilità e i lavori necessari alla riproduzione della vita e della società. Improvvisamente, i lavori della filiera agricola, dagli agricoltori a quelli delle industrie alimentari, i lavoratori e lavoratrici dei magazzini e della logistica, quelli dei supermercati, i netturbini e gli addetti alle pulizie, così come le lavoratrici e i lavoratori della cura e del settore sanitario, sono definiti «chiave o essenziali».

A una prima occhiata, potrebbe non sembrare una cosa così radicale. E invece lo è. Dopo tutto, la distinzione tra lavoratori qualificati e non ha permesso al capitale di legittimare le diseguaglianze salariali, stigmatizzare e svalutare la riproduzione sociale e muovere i lavoratori migranti dalle nazioni povere verso quelle ricche. La crisi attuale, e la dissoluzione della tradizionale divisione (e gerarchia) del lavoro a cui ha (momentaneamente) portato, ci stanno costringendo a mettere in discussione le fondamenta della definizione di manodopera non qualificata, e a porre al centro dell’attenzione il ruolo delle «attività di riproduzione della vita» nella lotta di classe a venire.

Il mercato del lavoro non funziona

Per comprendere l’attuale cambio di paradigma è necessario indagare come è stata costruita socialmente la figura del «lavoratore non qualificato». L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Oecd) definisce i lavoratori non qualificati sulla base del titolo di studio e non del lavoro che svolgono. L’Office for national statistics (Ons) inglese calcola i livelli di qualifica dei lavoratori secondo il tempo che impiegano ad acquisire le abilità necessarie a svolgere un certo lavoro. Questo criterio crea delle esplicite gerarchie tra le competenze, dando la precedenza a quelle scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche e svalutando invece quelle di altre discipline, o altre competenze invisibili, eterogenee e non quantificabili come quelle relazionali o interpersonali, così come le competenze acquisite sul campo.

I marxisti considerano da tempo la costruzione delle «competenze» come funzionale ad approfondire la divisione tra lavoratori manuali e non-manuali, individuando in essa la causa profonda delle diseguaglianze sociali e dell’alienazione dei lavoratori. Nel primo volume del Capitale, Marx prevedeva che la tendenza del capitalismo verso la meccanizzazione avrebbe portato ad aumentare la dequalificazione dei lavoratori. Questa tesi fu poi ripresa da Harry Braverman negli anni Settanta in un lavoro molto importante sul capitale monopolistico.

Eppure, invece di un processo lineare di dequalificazione dei lavoratori attraverso l’automazione costante, sin dagli anni Settanta abbiamo assistito a un processo eterogeneo di meccanizzazione parziale all’interno dello stesso settore, e a una crescente polarizzazione e segmentazione delle competenze, delle occupazioni e delle branche economiche tra altamente e scarsamente qualificate. Ciò che preme sottolineare è che i settori meno meccanizzati sono gli stessi che fanno ricorso a una forza lavoro definita come meno qualificata – al contrario di quanto predetto da Marx e Braverman. Inoltre, una tale situazione di polarizzazione e segmentazione delle competenze, delle occupazioni e dei settori ha generato una dinamica sempre più segnata dal genere e dalla razza.

Da un lato, il mercato del lavoro del nord del mondo negli ultimi quarant’anni ha subito quello che viene comunemente descritto come un processo di femminilizzazione. Processo che ha fatto sì che non solo le donne sono entrate nel mercato del lavoro in massa ma – come ha dimostrato Guy Standing nei tardi anni Novanta – che i bassi salari e le cattive condizioni di lavoro storicamente riservate alle donne, sono state estese a una fetta ancora più vasta della classe operaia, attraverso varie forme di contratti precari e sottopagati.

Dall’altro lato, molti lavori precari e sottopagati sono stati occupati da migranti e da lavoratori appartenenti a minoranze etniche. Un numero crescente di occupazioni nei gradini più bassi del mercato del lavoro è stata sempre più riservata a una popolazione razzializzata e intercambiabile, mentre i cosiddetti lavoratori nazionali non sono più disposti a fare i famosi lavori Ddd (Dirty, dangerous and demanding, cioè sporchi, pericolosi e faticosi) e Ccc (caring, cooking and cleaning, cioè di cura, cucina e pulizie) che sono retribuiti con paghe incredibilmente basse.

Meccanizzazione, gerarchia delle abilità e lavori di riproduzione della vita

Alcuni dei lavori alla base della piramide del lavoro razzializzato e femminilizzato che abbiamo descritto sopra includono quelli dei settori agroalimentare e di cura. I lavori in questi settori sono fra quelli meno pagati e considerati delle nostre società. Eppure – secondo Tithi Bhattacharya – dovrebbero essere definiti «lavori, o attività di riproduzione della vita», perché senza di essi la vita stessa non è possibile. Non sorprende perciò che dentro alla pandemia siano ora categorizzati come «chiave o essenziali», ribaltando completamente la gerarchia delle competenze e rendendo evidente la gerarchia assai più rilevante fra le attività davvero vitali, e quelle che invece esistono solamente per fare profitto.

Come accennato prima, le istituzioni internazionali come l’Oecd, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale sostengono che ai lavoratori dell’agroalimentare, della cura e di altri settori di riproduzione della vita non possano essere garantiti salari più alti, perché sarebbero a bassa produttività. Invece «lavori inutili» (bullshit jobs) – per prendere in prestito l’appropriata definizione di David Graeber – come quello di project manager, dei responsabili delle vendite e della formazione dirigenziale, degli amministratori delegati, dei lobbisti, dei venditori e degli attuari sono ora al margine opposto della lista, e hanno potuto beneficiare di aumenti di salario oltre ogni immaginazione, contribuendo ad aumentare le diseguaglianze di reddito. E questo non perché si tratti di lavori che richiedano particolari abilità e competenze, ma solo perché i capitalisti li considerano utili a ingrossare i loro profitti. La crisi attuale ha dimostrato che l’umanità se la caverebbe benissimo anche senza questi lavori inutili. Ma ha reso altresì evidente che la ragione per cui i lavoratori della riproduzione della vita come infermiere, badanti, agricoltori e così via ricevono paghe così basse non ha nulla a che fare con la loro presunta mancanza di competenze. Ha invece molto a che fare con le nostre economie capitaliste, che hanno scoperto che i profitti aumentano quando la maggioranza delle professioni che riguardano la riproduzione della vita sono svalorizzate e considerate di secondo piano, e restano appannaggio di categorie femminilizzate, razzializzate e intercambiabili, dal momento che questi lavoratori e lavoratrici hanno minore potere di contrattazione e sono costretti ad accettare bassi salari. 

Il lavoro agricolo è l’esempio cardine di un settore che ha visto livelli molto bassi di meccanizzazione per dequalificare i lavoratori. In Europa il settore poggia in gran parte sulle spalle di lavoratori migranti a giornata, le cui mani e braccia sono ancora oggi l’unico «strumento» a cui ci si affida per raccogliere frutta e verdura. La grande disponibilità di lavoratori migranti è la ragione principale per cui il settore non ha subito processi di meccanizzazione persino nell’Europa più ricca. Assumere lavoratori dalle nazioni più povere è nei fatti più economico che comprare costosi macchinari, dal momento che l’investimento iniziale è più alto e necessita di essere gestito e manutenuto da ingegneri altamente specializzati e da uno staff tecnico. I migranti che lavorano nel settore agroalimentare sono spesso senza documenti o altro, reclutati come lavoratori stagionali con permessi di soggiorno che permettono loro di rimanere all’interno di una nazione per il tempo necessario al raccolto. Questa è esattamente la situazione di illegalità e/o precarietà estrema della forza lavoro migrante nel settore agricolo che permette ai capi di abbassare le paghe, impedire una sindacalizzazione dei lavoratori e tenerli in uno stato costante di paura. 

Un’altra attività di riproduzione della vita che in queste settimane si è conquistata il centro della scena è quella del lavoro di cura. Che sia cura dei malati, degli anziani o dei bambini, questo lavoro è esemplare di un settore che è praticamente impossibile automatizzare. Tentativi di automatizzarne alcune parti, usando delle nursebot nelle case di riposo, ad esempio, sono perlopiù falliti. I lavoratori e lavoratrici della cura non possono essere rimpiazzati dalle macchine proprio perché i compiti relativi al lavoro di cura richiedono competenze interpersonali e relazionali. E così, una delle strategie del capitale per ridurre i costi del lavoro nel settore della cura è assumere (di nuovo) lavoratrici migranti dalle varie parti del sud del mondo o da aree più povere. Negli ultimi anni i datori di lavoro hanno adottato strategie differenti per svalorizzare e sottopagare il lavoro di cura. In particolare, hanno provato a standardizzare e segmentare il processo del lavoro di cura, facilitati in questo dalla crescente corporativizzazione di un vasto settore della cura all’infanzia e alla tarda età. Una dinamica dipinta molto chiaramente nell’ultimo film di Ken Loach, Sorry we missed you, nel quale la lavoratrice della cura è soggetta alle stesse forme di management e controllo del processo di lavoro di suo marito, che lavora come fattorino. La lavoratrice della cura raffigurata nel film ha dieci minuti per nutrire il proprio cliente e dieci minuti per lavarlo prima di correre dal cliente successivo. Come ci spiega bene la Teoria della Riproduzione Sociale, la produzione capitalista ha bisogno della riproduzione sociale (o di quella che qui stiamo chiamando riproduzione della vita) per poter prosperare, ma i capitalisti vogliono pagarla il meno possibile, se non affatto. Questo spiega perché i lavoratori della riproduzione della vita, come i netturbini o gli assistenti sanitari sono o incorporati all’interno dei servizi statali (con contratti sempre meno stabili e ben pagati), o invece impiegati da organizzazioni private che competono l’una con l’altra riducendo il costo del lavoro. Dovremmo allora fare molta attenzione al lessico delle competenze che abbiamo ereditato, secondo il quale molti lavori di riproduzione della vita non sono qualificati. Al contrario, dovremmo sfidare il paradigma e la gerarchia che parla di competenze alte e basse e che sta alla base di gravi diseguaglianze sociali, e combattere per il riconoscimento di un’uguale dignità e importanza dei lavori e delle professioni, in particolare di quelle che il capitalismo considera e rende indesiderabili; ma soprattutto lottare per la loro riorganizzazione e per una loro retribuzione più alta.

La trappola del binarismo dei lavori essenziali/non essenziali

L’improvvisa glorificazione dei lavori (apparentemente) non qualificati e sottopagati della riproduzione della vita li ha messi al centro della scena pubblica e ha avviato una discussione politica sulla giustezza delle paghe di questi lavoratori e lavoratrici. Una situazione simile sta rimandando al mittente la classificazione delle qualificazioni dell’Ons, che ritiene elementari le competenze di molti lavoratori essenziali, una definizione che sminuendo queste abilità come «semplici» getta le basi per una bassa retribuzione. Tuttavia, dobbiamo fare molta attenzione alle trappole nascoste dietro a quest’improvviso apprezzamento dei lavori di riproduzione della vita definiti «essenziali».

La distinzione ora comune tra lavori «essenziali» e «non essenziali» rischia di rinforzare i pregiudizi e le tattiche capitaliste anziché combatterle. Quelli definiti «non essenziali» appartengono spesso alle industrie creative, artistiche e culturali, che hanno subito tagli ingenti nel corso degli anni, perché considerate non profittevoli. Anche i lavori dei settori che stanno sperimentando una diminuzione o un crollo della domanda nel presente e nel futuro prossimo (ad esempio i ristoranti, gli hotel e l’industria del turismo, gli aeroporti e le compagnie aeree, le università, ecc.) sono stati definiti «non essenziali». Questo sta portando a un licenziamento di massa, o a contratti a brevissimo termine. Il binarismo «essenziale-non essenziale» può dunque rivelarsi un terreno pericoloso per i diritti dei lavoratori, perché dà una giustificazione morale alla nuova gerarchia delle competenze e alla disoccupazione di massa, vista come conseguenza quasi meritata.

Inoltre, la lode pubblica dei lavori di riproduzione della vita fino a oggi non è stata seguita dall’impegno a migliorarne paghe e condizioni di lavoro. La crisi del Covid-19 in Europa si sta abbattendo in maniera sproporzionata sulle donne del settore sanitario, dal momento che oltre a lavorare sempre più ore devono farsi carico della cura dei bambini e degli anziani a casa. Lo stesso potrebbe dirsi per i lavoratori in generale e per le lavoratrici in particolare in altri settori ora definiti «chiave», che non possono lavorare da casa ma devono comunque far fronte a lavori faticosi e sottopagati e magari badare a una famiglia.

Nuove faglie

Se la crisi creata dalla pandemia ha reso chiara una cosa è che molti lavoratori e lavoratrici della riproduzione della vita non possono più accettare condizioni di lavoro così rischiose per la stessa misera paga. In California, i lavoratori della cura in una casa di riposo particolarmente colpita dal Coronavirus sono rimasti a casa. Nel settore delle pulizie, i datori di lavoro hanno dovuto fare i conti con la carenza di personale e tassi di assenteismo particolarmente elevati. I lavoratori hanno cominciato a temere il virus più dei loro datori di lavoro. La maggior parte di queste proteste erano incentrate sulla sicurezza nel luogo di lavoro e sull’assenza di Dispositivi di protezione individuale (Dpi). Chris Small, lavoratore al magazzino Amazon di Staten Island, ha organizzato uno sciopero per l’assenza di Dpi. E i lavoratori Amazon hanno conquistato il congedo retribuito lo scorso 23 marzo, e anche ottenuto le Dpi che avevano richiesto.

Nelle ultime settimane, i lavoratori dell’industria, della logistica e dei supermercati hanno tutti dato vita a scioperi spontanei per questioni inerenti la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Molti di questi scioperi spontanei si sono tramutati in organizzazioni sindacali stabili. I lavoratori nei settori di riproduzione della vita in particolare stanno iniziando a chiedere l’aumento di salario che spetterebbe loro da molto tempo. Tutto questo può aprire nuove faglie, in un momento in cui il nesso tra produttività e salario è chiaramente rotto in ogni settore dell’economia. Per questa ragione, concentrare le nostre richieste su paghe più alte e migliori condizioni per chi lavora nella riproduzione della vita può rivelarsi strategicamente fondamentale per il movimento dei lavoratori e lavoratrici, e per la sinistra in generale in questa congiuntura storica. Non solo perché i lavoratori e le lavoratrici della riproduzione della vita sono in prima linea durante la pandemia; ma soprattutto perché le loro lotte gettano una luce cristallina sulla natura insostenibile e potenzialmente mortale del capitalismo. I settori di riproduzione della vita possono dunque diventare i nuovi centri del lavoro organizzato.

Mentre i lavoratori della riproduzione della vita lottano contro la razionalità del profitto, il loro lavoro ci parla di un modo alternativo di concepire l’economia e la ricchezza, che mette le vite umane e la salute pubblica sopra a tutto. 

*Sara R. Farris, senior lecturer in sociologia alla Goldsmiths-University di Londra, è autrice di Femonazionalismo (Alegre).
Mark Bergfeld lavora per il sindacato internazionale Uni Global Union.
 La traduzione è di Gaia Benzi.

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