Salute, malattia, cura: discutiamone
di Mimmo Perrotta
(questo articolo è stato pubblicato sul numero 88 – giugno 2021 – della rivista “Gli Asini” - gliasinirivista.org)
foto di Camillo Pasquarelli
Da quando, a febbraio del 2020, si è diffuso il nuovo coronavirus, e con esso le misure promosse dai governi con l’obiettivo di limitare il contagio, le persone hanno dovuto fare i conti con la propria idea di salute, di rischio, di cura: cosa è importante per la mia salute e il mio benessere? Come posso evitare di ammalarmi? Quanto sono disposto/disposta a rischiare di ammalarmi, pur di continuare a fare delle cose che ritengo importanti per il mio benessere? Come posso e devo prendermi cura degli altri, di familiari o persone fragili? E come le misure di contenimento del contagio, a loro volta, mettono a rischio ambiti che ritengo importanti per la mia salute e il mio benessere, ad esempio viaggiare, camminare, nuotare, cantare, suonare, vedere persone, abbracciarsi?
Domande che immediatamente trascendono il livello individuale e investono tutti gli ambiti della vita sociale – famiglia, luogo di lavoro, scuola, tempo libero, amicizie, associazionismo, gruppi politici… – per cui è necessario ragionare anche con gli altri e le altre. E, quasi sempre, all’interno del gruppo vi sono persone che hanno idee differenti di salute, percezioni diverse del rischio. Questioni su cui è difficile mantenere un confronto “razionale” e che spesso causano grosse emozioni, slanci di solidarietà così come atteggiamenti egoistici. Vado a trovare i miei genitori anziani? È giusto che i nipoti che vanno a scuola si sentano considerati portatori di contagio per i nonni o per parenti fragili? E ancora, le discussioni a scuola tra quei genitori che rimproverano l’insegnante di non far rispettare abbastanza l’obbligo di tenere la mascherina (perché la scuola è un probabile luogo di contagio) e quegli altri che soffrono vedendo i propri figli obbligati a tenere la mascherina per tutto l’orario scolastico, senza poter scambiare un abbraccio o una matita con il compagno di classe (ma è scuola questa?). E l’insegnante nel mezzo, a cercare di mantenere un precario equilibrio, mentre fa i conti con le proprie percezioni e i propri timori.
Una discussione difficile perché molte persone hanno vissuto direttamente lutti e malattia, ma ancor più per il contesto sociale, politico, mediatico di questi mesi: un dibattito politico giocato sulla paura, sulla “guerra al virus”, sui richiami alla responsabilità individuale, con l’accusa di “negazionismo” agitata verso chi argomenta posizioni differenti, il bollettino quotidiano dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva (fino all’assuefazione nel leggere di centinaia morti al giorno con il Covid), scienziati sovraesposti che non aiutano a comprendere e, dall’altra parte, i social network come fonti di informazione, con il noto meccanismo algoritmico per cui l’utente riceve soprattutto notizie che confermano le sue opinioni ed è connesso soprattutto con chi è d’accordo con lui/lei, disabituandosi in questo modo a confrontarsi con idee diverse.
E ancora: da mesi viviamo in una situazione di coprifuoco e di limitazione della libertà di movimento e di riunione. In molti luoghi di lavoro non si possono più incontrare di persona i colleghi, i luoghi della cultura sono stati chiusi, dibattiti assemblee riunioni sono passati online, ed è difficile discutere così, via mail chat videochiamate faccine.
In questa situazione, vi è stata una difficoltà particolare per i movimenti sociali nel discutere e trovare una prospettiva comune sui temi della salute e della situazione sanitaria. Una difficoltà nel costruire una prospettiva che, sulla base di valori come solidarietà, giustizia sociale, rispetto della libertà personale, rispetto per l’ambiente, sapesse (sappia) elaborare un pensiero critico collettivo e diffuso sulla pandemia, sulle sue molteplici cause e conseguenze, sulle misure messe in atto dai governi in merito al contagio e che inoltre sapesse (sappia) attuare pratiche “dal basso” di cura, solidarietà attiva, mutualismo. Una difficoltà connessa a una crisi più ampia per i movimenti sociali in Italia.
Certo, sono state importanti – soprattutto nella primavera 2020 – le tante esperienze di solidarietà volontaria dal basso verso le persone più fragili in molte città italiane e, ancora di più, sono state fondamentali le vertenze portate avanti in molti luoghi di lavoro, ad esempio nella logistica, affinché le aziende assicurassero ai dipendenti che non potevano andare in smartworking (quindi soprattutto gli operai) le necessarie condizioni di sicurezza.
Tuttavia, tranne poche voci isolate (ad esempio Radio Popolare), le critiche più veementi all’operato del governo sono venute da prospettive di destra, quelle di chi ha sostenuto l’importanza di “non far fermare l’economia” nonostante il virus, e quindi di tenere aperto un numero il più possibile alto di aziende ed esercizi commerciali, anche laddove questi ponessero rischi per la salute, usando una nuova variante di un “ricatto” che molti cittadini e i movimenti ambientalisti conoscono bene da tempo, quello tra salute e lavoro. Sono stati poi soprattutto piccoli commercianti e ristoratori ad andare in piazza, dietro slogan come “tu ci chiudi tu ci paghi” o “io apro”. Molto minori sono state le proteste affinché non si chiudessero i luoghi della cultura, col paradosso che si è potuto frequentare mobilifici e grandi magazzini, ma non musei, mostre e teatri.
Un discorso a parte va fatto sulla scuola: vi sono state proteste diffuse, da parte di movimenti e organizzazioni come “Priorità alla scuola” e “La scuola che accoglie”, contro l’obbligo della didattica a distanza e per la riapertura, sulla base di varie argomentazioni, spesso anche in contraddizione tra loro, da un lato legate alla salute (la scuola è un luogo più sicuro di altri rispetto ai contagi; tenere i bambini e le bambine davanti al computer per tutto il giorno fa loro più male di quanto possa fare il virus), dall’altro a necessità molto più “materiali” (la scuola in presenza è necessaria per consentire ai genitori di lavorare). Anche in questi movimenti non è stato semplice discutere su cosa è salute, cura, benessere, per figli e genitori.
Insomma: in molti movimenti sociali (o quello che di essi rimane) – movimenti e organizzazioni ambientaliste, femministe e contadine, sindacati confederali e di base, il movimento del consumo critico con i suoi gruppi di acquisto solidale, l’associazionismo, la cooperazione – la discussione (a distanza) su cosa è salute cura benessere ha portato spesso a conflitti, a rimozioni o all’esclusione di quelle minoranze che non si trovano d’accordo con l’approccio “mainstream” alla salute e alla pandemia e in certi casi alla sostanziale acquiescenza, “ubbidienza” e condivisione paziente di quell’approccio che ha guidato le scelte politiche e sanitarie, spesso sbagliate, talvolta disastrose, di questi mesi (come ha documentato il libro Senza Respiro di Vittorio Agnoletto, Altreconomia 2020), forse nell’illusione che, passata la pandemia, si possa riprendere a incontrarsi come si faceva prima.
[Difficile riassumere cos’è l’approccio “mainstream” alla pandemia, ma, per capirci, brevemente, quello per cui un virus è arrivato chissà da dove (sempre dall’esterno, dalla Cina), circola più o meno indisturbato, va fermato “con una guerra” (con i suoi eroi in prima linea); la malattia va curata con i mezzi della biomedicina occidentale (dai farmaci alla terapia intensiva ai vaccini), tutte le persone sono potenziali portatrici di contagio e quindi vanno controllate con obblighi, divieti, sanzioni e criminalizzate in caso di comportamenti non conformi; la “scienza” non può essere messa in discussione, nonostante i disaccordi tra scienziati. Un approccio che dimentica le origini ambientali della pandemia, le disuguaglianze sociali di salute, la prevenzione, i danni derivati dalla privatizzazione e dal definanziamento del sistema sanitario pubblico, il fatto che la scienza sia un processo dialettico, di costruzione progressiva di verità sempre e solo parziali, e non scevro da dinamiche di potere e conflitti di interessi, al pari di ogni altro ambito sociale. Un approccio in cui si chiede ai cittadini responsabilità individuale ma in cui i rappresentanti istituzionali cercano di non prendersi le responsabilità dei propri errori. Un approccio che, quantomeno, presenta una concezione molto semplicistica di salute come mera assenza di malattia].
È quindi necessario e urgente che nei movimenti si riapra una discussione profonda su questi temi. Mi pare che all’interno di questi movimenti vi siano – semplificando molto – due concezioni di salute, entrambe molto differenti dall’approccio biomedico “mainistream”. Non sono un medico né un esperto, quindi definirò rozzamente questi due approcci come quello che rivendica una libertà di cura e fa riferimento alle medicine “non convenzionali” e quello della medicina sociale. Due approcci che però raramente e difficilmente riescono a comunicare e a trovare un terreno di incontro; durante i mesi di crisi sanitaria, questa incomunicabilità ha portato a molti conflitti all’interno di varie realtà sociali.
Quelle che sono chiamate medicine non convenzionali non rappresentano un approccio unitario, ma un complesso di concezioni e pratiche spesso molto differenti tra loro. Le più note sono fitoterapia, omeopatia, medicina antroposofica, medicina cinese, medicina ayurvedica indiana, o pratiche come l’agopuntura e la pranoterapia. Alcune hanno una storia millenaria, altre sono molto più recenti; alcune sono nate fuori dall'Occidente, altre in Europa. Sono accomunate dalla ricerca di un approccio olistico alla salute e al benessere, che si contrappone al dualismo mente-corpo e al bioriduzionismo propri della medicina occidentale (che, da parte sua, le ritiene per lo più pratiche non scientifiche). I confini tra biomedicina “ufficiale” e medicine non convenzionali non sono netti e vengono costantemente “rinegoziati”. Penso ad esempio ad alcune tematiche controverse e che hanno trovato consensi anche nel campo “scientifico”: l'opposizione alla medicalizzazione di molti ambiti della vita (pensiamo alla lunga e importante storia del movimento per il parto naturale e contro la medicalizzazione della nascita – e al fondamentale apporto dato a essa dalla riflessione femminista – a cui questa rivista ha dedicato il numero 12-13 nel 2012), l’idea che ci si possa curare senza necessariamente usare medicinali chimici e – banalmente – attraverso pratiche di vita sana (alimentazione, attività fisica, ecc.), l’idea che un buon equilibrio a livello mentale e spirituale abbia un peso importante nel mantenere un buon livello di salute. Anche se non è un riferimento poi così noto in questi ambienti, è necessario ricordare qui il lavoro radicale di Ivan Illich in Nemesi medica, la sua riflessione su come la medicina occidentale vada considerata una causa di molte malattie, e non una cura, e la sua esortazione a non delegare agli esperti la gestione del proprio corpo e del proprio benessere.
Presente in Italia da almeno quarant’anni – e analizzato da varie ricerche sociologiche, da L’altra medicina e i suoi malati di Pina Lalli (Clueb, 1988) a La medicina contesa di Enzo Colombo e Paola Rebughini (Carocci, 2006) – quello delle medicine non convenzionali è un mondo variegato; è diffuso in movimenti sociali come quello dell'agricoltura biologica (che nasceva negli anni settanta, in maniera simile come reazione all’agricoltura industriale e chimica), del consumo critico, di alcune scuole non statali, ma anche tra molte persone che non sono parte di alcun movimento sociale. Si tratta comunque di un fenomeno per lo più limitato a persone con un buon livello di istruzione, un reddito medio-alto, soprattutto nel Nord Italia e nei centri urbani. E corre talvolta il rischio di diventare una delle tante forme superficiali di ricerca di distinzione sociale e di un’identità attraverso il consumo, sotto la spinta di un insistente marketing della salute in un mercato sempre più ampio e talvolta con accenti moralistici, per cui il non tenersi in forma è visto come una colpa.
Rispetto al Covid19 (che pure spesso è stato in questi ambienti sottovalutato, anche a causa del diffondersi di teorie cospirazioniste), l'idea è che esso non vada necessariamente curato con gli strumenti proposti e imposti dalla medicina ufficiale, ma che vi sia una varietà di cure e che, cosa forse più importante, sia anzitutto importante rafforzare corpo e spirito, con la convinzione che se un agente patogeno incontra una persona sana, è più difficile che la malattia faccia danni gravi.
Il limite forte di questi approcci è l’attenzione prevalente alla salute individuale, per cui si cerca giustamente di non delegare la gestione della propria salute agli esperti o al sistema medico ufficiale, ma raramente ci si pone il problema delle disuguaglianze sociali, del fatto che molte persone semplicemente non possono mantenersi in buona salute, perché sono nate in un certo luogo del mondo, in una certa classe sociale, o fanno un certo lavoro (è possibile mantenere una buona salute se si vive in una baracca senz’acqua in mezzo ai campi e si lavora in agricoltura, magari in serra respirando fertilizzanti e diserbanti chimici? È possibile mantenere un certo benessere fisico e spirituale se si è nati e cresciuti in un quartiere popolare di fronte a una acciaieria, a una industria chimica o a una discarica magari abusiva a Taranto o a Brescia?).
Dall’altro lato c’è la medicina sociale: quei medici e quei movimenti che della biomedicina occidentale criticano soprattutto il fatto che essa non considera le determinanti sociali e strutturali della salute, che tende a curare “pezzi” di corpi perdendo di vista l’essere umano nella sua interezza e soprattutto nel suo contesto sociale. Una critica legata storicamente al fatto che la medicina “ufficiale” è vista come funzionale al sistema economico capitalista e allo sfruttamento del lavoro: è necessario tenere in buona salute le persone affinché queste possano lavorare e partecipare in maniera ordinata alla vita sociale, senza un interesse particolare per il più generale benessere psico-fisico delle persone. L’idea di salute è quindi legata alla necessità di lottare per una società più giusta, nella quale l'impatto diseguale delle determinanti sociali sia il più possibile appianato, ma anche in cui vi sia un ambiente più sano e meno inquinamento, in cui l’accesso a un cibo salutare e nutriente sia garantito a tutte le persone, in cui non si rischi di infortunarsi o ammalarsi nei luoghi di lavoro.
È un approccio che in Italia è rappresentato da organizzazioni come Medicina Democratica, dall’approccio della “Salute globale” (a cui fa cenno il contributo di Chiara Bodini e Angelo Stefanini sul numero 82-83 degli Asini), da campagne come Primary Health Care now or never. Una prospettiva che ha le proprie figure di riferimento in medici come Giulio Maccacaro ma anche Franco Basaglia, che si è forgiata nelle lotte contro la nocività sul lavoro sin dagli anni sessanta e ha costruito negli ultimi decenni ambulatori nelle periferie e per assistere le persone di origine straniera, anche in condizioni di irregolarità.
Rispetto alla pandemia, si è cercato di far luce sul rapporto tra Covid19 e determinanti sociali, utilizzando ad esempio il concetto di sindemia: come ha scritto Richard Horton nell’editoriale di “The Lancet” tradotto sul numero di aprile degli Asini, la gravità del nuovo coronavirus aumenta in presenza di alcune malattie non trasmissibili e, scrive Horton, “non importa quanto sia efficace un trattamento medico o protettivo un vaccino, ogni ricerca di una soluzione puramente biomedica per contrastare il Covid-19 è destinata a fallire. A meno che i governi non diano seguito a politiche e programmi per invertire le profonde disparità sociali oggi esistenti, le nostre società non saranno mai realmente al sicuro dal Covid-19”. E, come ha ricordato Ernesto Burgio nello stesso numero della rivista, va aggiunta la questione cruciale dell’inquinamento soprattutto nelle aree urbane che “da un lato prepara, dall’altro potenzia enormemente l’azione del virus”. È a questa concezione di cura che mi pare si richiami il “Manifesto per una società della cura”, che ha raccolto negli ultimi mesi centinaia di adesioni nel mondo dell’associazionismo e dell’economia solidale.
È possibile che questi due approcci alla cura e alla salute – entrambi presenti e sentiti nei movimenti sociali – trovino dei terreni di dialogo? È possibile che attraverso questo dialogo si possa costruire una prospettiva nuova, complessa e capace di operare una critica forte al riduzionismo della biomedicina occidentale?
Sono approcci che hanno diversi punti in comune. Ad esempio, l’importanza che entrambi danno alla prevenzione delle malattie, più che alla cura, sebbene gli uni siano più attenti ai comportamenti individuali, gli altri alle disuguaglianze sociali, e l’attenzione di entrambi gli approcci all’essere umano e al suo benessere nella loro totalità e non quella esclusivamente specialistica mirata al buon funzionamento di singoli pezzi dell’organismo. E ancora, l’idea che la medicina e la cura non possano e non debbano passare solo e principalmente per gli ospedali, per i farmaci chimici, per la chirurgia, ma debbano avere anzitutto presidi diffusi sul territorio, con una medicina generale attenta a tutte le dimensioni della salute e del benessere dei cittadini e delle cittadine.
Tuttavia, sono approcci e sensibilità molto differenti tra loro. Pensiamo ad esempio alle critiche che da parte dei due approcci vengono mosse alla campagna vaccinale in corso. La prospettiva della medicina sociale mette in rilievo come la campagna vaccinale sia sì necessaria, ma inficiata dal fatto che le grandi multinazionali farmaceutiche pensino soprattutto al proprio profitto (si veda la contestatissima decisione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio di non sospendere i brevetti sui vaccini) e i governi pensino soprattutto alle proprie esigenze geopolitiche, mentre la salute pubblica resta in secondo piano e anche la campagna vaccinale conferma le disuguaglianze sociali: vengono vaccinati i cittadini dei paesi ricchi e non quelli dei paesi poveri e, anche in molti paesi ricchi, le categorie più influenti ottengono di essere vaccinate prima rispetto a persone fragili che ne avrebbero una necessità più urgente. Coloro che fanno riferimento alle medicine non convenzionali vedono invece spesso nel vaccino una pratica medica che può portare più danni che benefici e, in generale, ritengono i vaccini obbligatori un tentativo illegittimo di controllo della salute individuale da parte dello stato (un'idea, quest'ultima, peraltro talvolta condivisa anche al di fuori delle medicine non convenzionali, anche a causa della sperimentazione non sufficiente).
Due prospettive divergenti, che però condividono la preoccupazione per il fatto che l’attenzione esclusiva dei governi alla campagna vaccinale stia facendo dimenticare altre fondamentali questioni che il virus ci ha posto davanti in maniera chiara. Tre su tutte, che possono far trovare un terreno comune: il fatto che viviamo in una società malata (di obesità, diabete, allergie, malattie autoimmuni, tumore… ma anche di inquinamento… ce lo ha ricordato ad esempio da ultimo Angelo Stefanini, www.saluteinternazionale.info/2021/03/cosa-ci-sta-svelando-covid-19/), la cui cura non può basarsi sui medesimi principi di ciò che l'ha ammalata (ovvero, un sistema capitalista di “sviluppo” insostenibile); la necessità di ridare forza e vigore a un servizio sanitario pubblico e universalistico che si basi sulla medicina territoriale prima ancora che sugli ospedali (e, per fare questo, è necessario rivedere in profondità la formazione dei medici, come spiegano ancora Chiara Bodini e Angelo Stefanini nel numero 82-83 di questa rivista); più in generale, la necessità di trovare un rapporto più sano e più equilibrato con l’ambiente, ridurre l’inquinamento, attuare la transizione energetica, dare forza a una agricoltura ecologica e di prossimità, adottare stili di vita sobri.
Si tratta di una discussione necessaria (ne è un esempio il documento “Per un dialogo costruttivo sulla vaccinazione anti Covid 19”, https://indd.adobe.com/view/032f0a04-ca7c-411d-b863-bee2f6dadc06), per il presente e per il futuro, che molti osservatori ritengono sarà caratterizzato dall’insorgere di altre pandemie. Una discussione che però non può essere soltanto teorica. È necessario anche partire da esperienze concrete, che tengano assieme la libertà del singolo di scegliere come curarsi e l’attenzione verso le disuguaglianze sociali di fronte alla salute, un’idea non “meccanica” della malattia e degli agenti patogeni e la capacità di leggere le dinamiche di potere e di agire per contrastarle. Magari costruendo, dal basso e mutualisticamente, strutture territoriali e comunitarie, come consultori e case della salute (in questo senso è interessantissima l’esperienza della Casa della Salute delle Piagge di Firenze raccontata sul numero di aprile 2021 di questa rivista), in cui professioniste e professionisti operino assieme a cittadine e cittadini, associazioni, collettivi, in una relazione aperta, paritaria e rispettosa.
Dentro e dopo la crisi sanitaria legata al Covid19, da questo tipo di dibattiti e sperimentazioni dipendono anche le discussioni su come riaprire le scuole, come gestire i luoghi di lavoro, come organizzare in generale la nostra vita sociale culturale politica.