La “tragedia” della residenza: l’anagrafe tra controllo e autonomia

di Enrico Gargiulo*

Ancora dal Convegno “Frizioni urbane”, in questo articolo il sociologo Enrico Gargiulo affronta la questione della residenza anagrafica, dalla sua ambiguità (strumento per accedere a diritti di cittadinanza ma anche di controllo della popolazione) e dell’importanza di una garanzia per tutte e tutti di poterla vedere riconosciuta.

A uno sguardo superficiale, la residenza appare come uno status di secondaria importanza. Essere registrati presso l’anagrafe di un comune è un fatto normalmente considerato banale e quasi scontato: ogni persona – si tende a credere – è residente nel luogo in cui vive, a meno che non decida, spontaneamente, di mantenere l’iscrizione in un luogo diverso da quello in cui trascorre la maggior parte della propria esistenza.

Il rapporto con le istituzioni comunali che gestiscono i registri anagrafici, di conseguenza, è vissuto all’insegna della quasi totale indifferenza o, al più, del fastidio, che si manifesta quando si ritiene di aver bisogno di – o si percepisce di essere costretti a – modificare la propria posizione all’anagrafe e, dunque, diventa necessario affrontare probabili code agli uffici di un’amministrazione locale. Inoltre, la percezione che la piena fruizione di un vasto insieme di diritti dipenda dal riconoscimento della residenza è di solito scarsa, se non del tutto assente.

Indifferenza o fastidio, tuttavia, si trasformano rapidamente in disagio e preoccupazione quando, a fronte di una propria richiesta, o per iniziativa diretta di un comune, l’iscrizione è rifiutata o revocata. In questo caso, il rapporto tra anagrafe e diritti emerge in tutta la sua drammatica evidenza: le conseguenze della mancata registrazione possono manifestarsi immediatamente, traducendosi, per le persone coinvolte, in problemi nell’accesso al Servizio sanitario nazionale o nell’impossibilità di una presa in carico da parte dei servizi sociali, dell’assegnazione di una casa popolare, dell’ottenimento di sussidi economici, ecc.

A uno sguardo più attento, pertanto, la residenza appare come un istituto giuridico strategico e centrale nella vita quotidiana di moltissimi individui. La sua mancanza equivale infatti alla negazione – per via legale o, spesso, semplicemente burocratica – di diritti fondamentali riconosciuti dalle norme statali e regionali. Essere iscritti in anagrafe, contrariamente a una percezione diffusa, non è perciò un fatto scontato.

A non essere banale e ovvia, nonostante le apparenze, è però anche un’altra questione, relativa alla funzione della residenza. Difficilmente ci si interroga sulle finalità di questo istituto, sugli obiettivi sociali e politici che consente di raggiungere. Di solito, una qualche riflessione a riguardo è condotta soltanto dagli “addetti ai lavori”, oppure da chi ha la sfortuna di fare esperienza delle barriere burocratiche all’iscrizione anagrafica e, di conseguenza, è costretto ad accorgersi che la condizione di residente costituisce un passaggio necessario nel percorso di accesso ai diritti. In questi casi, il principale – se non l’unico – scopo che si tende ad attribuire ai registri comunali è appunto quello di rendere fruibili benefici e prestazioni legalmente previsti dalle norme italiane o di votare alle elezioni politiche e amministrative.

Eppure, l’anagrafe non nasce per garantire alle persone l’esercizio dei diritti sociali e politici. Viene introdotta piuttosto per raccogliere informazioni sulla popolazione e sulle sue caratteristiche, anche e soprattutto in termini di mobilità, ossia per studiarne la composizione e i movimenti. La funzione originaria dell’istituto anagrafico, in altre parole, è quella di controllare gli individui e il modo in cui questi si dispongono sul territorio.

All’interno dell’ordinamento italiano, la residenza è perciò uno strumento necessario per la costruzione di un percorso di “autonomia” individuale ma, allo stesso tempo, è un dispositivo di controllo che, come tale, limita le possibilità di azione dei singoli. La residenza ha dunque un carattere “tragico”: la sua mancanza rende impossibile esercitare i diritti, mentre la sua presenza rappresenta un potenziale restringimento delle libertà. Ma lo status di residente ha anche una natura profondamente “politica”: sebbene appaia come uno strumento tecnico-amministrativo, indifferente a questioni relative alle priorità e ai princìpi fondativi di una società, l’anagrafe, in realtà, condiziona in maniera sostanziale gli assetti societari, producendo effetti in termini di giustizia ed eguaglianza.

Più precisamente, la costituzione intrinsecamente ambivalente dei registri anagrafici rende “tragico” il loro uso “politico”. Questi registri sono una parte centrale della macchina organizzativa dello stato, ossia di un’entità politica stabilmente collocata all’interno del sistema capitalistico. Un sistema caratterizzato in modo strutturale da disuguaglianze socialmente considerate legittime, che hanno origine al livello della produzione e che, soltanto in parte, sono compensate dai meccanismi istituzionali della redistribuzione, attuati peraltro da un welfare sempre più in crisi.

Nell’ambito di un contesto del genere, l’istituto della residenza è chiamato a svolgere una funzione di controllo, statistico e amministrativo, del territorio e della popolazione, necessario a contenere gli effetti delle asimmetrie sociali ed economiche. Identificare chi vive in un determinato spazio consente da un lato di allocare e redistribuire meglio le risorse del welfare, e dall’altro di prevenire, o semplicemente di reprimere, fenomeni di “devianza” legati – anche – alle condizioni strutturali di deprivazione economica. Per svolgere questa funzione, i registri anagrafici devono essere tenuti in maniera corretta: vale a dire, i residenti di diritto devono coincidere con i residenti di fatto.

Di conseguenza, chi si pone da una prospettiva critica nei confronti del capitalismo o addirittura antisistemica, intendendo cioè contrastare quelle interazioni tra attori politici ed economici che sono alla base delle diseguaglianze, può porsi come scopo quello di sfuggire a un simile potere di sorveglianza sottraendosi “alla vista” degli apparati comunali e delle prefetture. Così facendo, tuttavia, rinuncia a esercitare i diritti che gli sono riconosciuti dal welfare, ossia da un sistema che, a prescindere dalla sua generosità, è del tutto interno alla logica capitalistica, costituendo l’elemento centrale tramite cui il conflitto tra capitale e lavoro è stato, se non disinnescato, quantomeno contenuto entro limiti considerati accettabili.

L’ambivalenza dell’anagrafe, dunque, si intreccia con quella delle politiche sociali. Controllo e aiuto si sovrappongono, tanto da essere difficilmente distinguibili l’uno dall’altro. Questa sovrapposizione è esemplificata in maniera efficace dal trattamento riservato alle persone homeless. Nel 2009, la già citata legge 94 ha introdotto un Registro delle persone senza fissa dimora. Questo strumento è stato presentato come un’opportunità conoscitiva per la pubblica amministrazione: per suo tramite, è possibile raccogliere informazioni sulle persone in condizione di disagio e affrontare meglio le situazioni di bisogno. Il Registro, in altre parole, è descritto come un dispositivo non repressivo ma informativo, finalizzato a ottimizzare gli interventi sociali. Eppure, la sua collocazione amministrativa – il ministero dell’interno, non quello delle politiche sociali o della sanità – ne svela immediatamente gli obiettivi reali: monitorare i comportamenti e gli spostamenti di componenti marginali della popolazione. Comportamenti e spostamenti che, peraltro, sono fortemente vincolati e condizionati. La legge del 2009, la seconda parte del Pacchetto sicurezza voluto e introdotto dall’allora Ministro dell’interno Roberto Maroni, impone a chi non dispone di un alloggio la dimostrazione della presenza effettiva sul territorio. In questo modo, il senso originario dell’iscrizione per domicilio – il canale di accesso all’anagrafe per le persone senza fissa dimora – è del tutto distorto: la scelta libera ed elettiva del luogo di residenza cede il passo a una visione disciplinante. Chi vuole essere registrato deve dimostrare una certa dose di “buona volontà”, esibendo ad esempio i suoi contatti con i servizi sociali o con associazioni che offrono assistenza in un dato territorio. I casi dei comuni di Milano e Firenze sono esemplificativi al riguardo.

Le procedure di iscrizione per le persone homeless, dunque, non soltanto svolgono una funzione di controllo spaziale ma realizzano anche un’attività di disciplinamento sociale che incide, al contempo, sulla mobilità e sui comportamenti individuali: l’aiuto è subordinato alla stanzialità e alla disponibilità a esibire un atteggiamento ritenuto “adeguato”.

Non sempre, tuttavia, la piena corrispondenza tra popolazione di fatto e popolazione di diritto è una priorità per le amministrazioni locali. Negli ultimi decenni, numerosi comuni hanno attuato strategie più o meno esplicite e dirette, del tutto illegittime sul piano giuridico, per negare l’iscrizione anagrafica a individui che, sulla base delle leggi statali, ne avrebbero diritto. In questo modo, le amministrazioni locali hanno impedito l’esercizio effettivo di diritti fondamentali. L’obiettivo di questi comuni – non ostacolato e addirittura favorito dagli apparati centrali – sembra essere la selezione dei residenti, realizzata evitando di iscrivere nei propri registri persone “indesiderate”.

Quando ciò accade, i movimenti sociali e gli attivisti che difendono i gruppi esclusi o marginalizzati sono costretti a rivendicare il diritto alla residenza per favorire un minimo di inclusione e di riconoscimento. Così facendo però, seppur involontariamente e – spesso – inconsapevolmente, forniscono legittimazione a un dispositivo di controllo potenzialmente insidioso. Le parole e le azioni dell’ex Ministro dell’interno Matteo Salvini – le dichiarazioni sui “censimenti” delle popolazioni rom, la circolare del 1° settembre del 2018 sugli sgomberi e il primo Decreto sicurezza – evidenziano in maniera chiara i rischi associati all’impiego degli strumenti demografici: con il pretesto della legalità e dell’integrazione, si cerca di attuare un controllo capillare ma selettivo del territorio e di chi lo abita, finalizzato a individuare e reprimere determinati gruppi sociali.

Per questo motivo, la difesa del diritto all’iscrizione anagrafica è un obiettivo urgente e rilevante sul piano tattico – non perseguirlo vorrebbe dire lasciare persone già svantaggiate in una condizione di disagio ancora maggiore – ma diventa problematica se considerata una finalità strategica. In un orizzonte di lungo periodo, è importante pensare e immaginare modi di organizzazione della vita associata che vadano oltre i dispositivi di controllo su cui lo stato moderno si fonda e forme di autonomia ed emancipazione che non siano intrappolate nella logica del welfare state.

Di questo e di molto altro si è parlato nel bel convegno Frizioni urbane. Governo dei margini e sicurezza dei diritti, organizzato da Pietro Saitta all’Università di Messina. Eventi del genere rappresentano occasioni preziose per discutere collettivamente di temi legati alla gestione degli spazi urbani e alle sue logiche, agli attori che la praticano e a quelli che vi oppongono resistenza.

 

* sociologo, Università di Bologna

 

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