“Che fatica che ti chiedo, oggi devi scioperà”. Note sullo sciopero generalizzato a venire.

Dario Firenze

Lo sciopero generale convocato da CGIL e UIL lo scorso 16 dicembre ha segnato un punto rilevante nella complessa fase attuale. Da educatore precario per l’infanzia e psicologo neolaureato con la sola certezza “lavorativa” di un anno di tirocinio non retribuito, non ho potuto scioperare. Ma allo stesso tempo, da militante di un progetto mutualistico e sindacale -  il progetto Non sei sol@ di Ri-Make a Milano parte di Fuorimercato - Autogestione in Movimento, ho guardato a questo sciopero con un misto di interesse e perplessità.

Questo sciopero ha avuto il pregio di scandalizzare chi ha il terrore del conflitto sociale in tutte le sue forme, anche le più pallide, a partire dall’ovvio disprezzo della Confindustria di Bonomi fino all’unanime condanna di tutti partiti di governo, Draghi in testa. Lo sciopero ha raccolto una buona partecipazione, con alti livelli di adesione dichiarati dai soggetti promotori, decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori in piazza, e la presenza delle tante vertenze aperte a partire dallo sblocco dei licenziamenti.

Ma l’elefante nella stanza, o nella piazza, è stato quello segnalato fin dall’inizio dai lavoratori e dalle lavoratrici della GKN, che da luglio scorso è diventata qualcosa di più dell’ennesima vertenza aperta: il collettivo di fabbrica ha posto chiaramente come questo sciopero fosse tardivo e inadeguato alle necessità attuali. Dopo essersi mobilitati dietro alla parola d’ordine “Insorgiamo”, il collettivo della fabbrica di semiassi in occupazione dallo scorso luglio, ha diffuso l’urgenza di uno sciopero generale e generalizzato “come processo”, dove far convergere vertenze aperte, movimenti sociali ma soprattutto lavoratrici e lavoratori di tutto il paese. Sembra allora che “l’inizio della battaglia”, come esclamava il segretario della CGIL Maurizio Landini dal palco, sia stato più una falsa partenza o, ben peggio, uno sciopero simbolico funzionale a un posizionamento di facciata che non avrà seguito.

Ma la proposta del collettivo GKN va anche al di là dei limiti enormi dello sciopero generale del 16 dicembre: cosa può significare oggi uno sciopero generalizzato nella società, che non sia solo un evento estemporaneo e propagandistico, ma un processo diffuso di cambiamento radicale?


Occupa, resisti, produci alternative
La mobilitazione della GKN ha già fatto storia, per la sua capacità di uscire dalla ritualità di gestione della vertenza di un’azienda in crisi e per la proposta di alternative radicali concrete, credibili, per salvare quei 500 posti di lavoro ripensando le forme sindacali e conflittuali.

Qui mi voglio concentrare su due dimensioni della loro esperienza che possono aiutare a rispondere agli interrogativi sullo sciopero generale e generalizzato: la sostanza politica dell’occupazione della fabbrica di Campi Bisenzio e il carattere territoriale delle sue forme di partecipazione.

Il tempo da luglio ad oggi in quella fabbrica si è dilatato a seconda delle esigenze, riuscendo a correre più veloce di un fondo finanziario e a rallentare per tessere legami solidali e alleanze. Nel tempo forzatamente fermo di una fabbrica che non produce si sono prodotte delle altre relazioni sociali e politiche, immaginando un presente e un futuro radicalmente diversi da quell* a cui sembravano condannat*. Relazioni centrate sulla cura collettiva della fabbrica e di ogni lavoratrice e lavoratore: gli operai ovviamente ma anche le lavoratrici delle pulizie in appalto, e con un protagonismo specifico delle donne, attiviste, mogli e compagne degli operai, nel lavoro del Coordinamento Donne GKN. In autogestione il collettivo si occupa di tutte le attività di manutenzione e riproduzione, pulire, preparare i pasti, e farlo in maniera aperta a chi voglia dare una mano con la campagna di supporto territoriale che ha coinvolto decine di persone.
In questa dimensione di occupazione che ferma il tempo e produce alternativa sembra comparire un filo che collega Campi Bisenzio a tanti altri luoghi nel mondo che negli ultimi vent’anni (per rimanere nella storia recente e citando solo alcuni esempi tra tantissime esperienze) partivano da problemi simili ma soprattutto hanno sperimentato pratiche affini.
Innanzitutto questo filo arriva teso all’Argentina uscita dalla crisi del 2001 e alle prime esperienze delle fabricas recuperadas, con centinaia di aziende occupate e riattivate dagli operai sperimentando nuove forme di economia dal basso e spazi di auto-organizzazione. Il loro slogan era ¡Ocupar, resistir, producir!, che a sua volta veniva ripreso, allungando il filo, dal Brasile e dal movimento dei Sem terra attivo dagli anni ‘80 nella riappropriazione della terra da parte di contadin* spossessat*. Questo filo ci porta al 2011, quando esplosero i “movimenti delle piazze”, dall’occupazione di Piazza Tahrir al Cairo, a quella di Puerta del Sol a Madrid con il movimento degli indignados, fino Occupy Wall Street negli U.S.A. e il movimento degli ombrelli a Hong Kong. Le piazze si riempiono di nuovo nel 2016 in Francia con Nuit Debout fino ai più recenti movimenti in Cile e al movimento Black Lives Matter. In questi movimenti, con una composizione eterogenea che ha raccolto in maniera spuria tanti settori della società, si sono riversate le urgenti necessità di nuovi luoghi politici per chi non rientra nelle categorie e nelle forme delle organizzazioni esistenti, nuovi luoghi aperti centrati sulla democrazia diretta nella crisi verticale della politica e dentro una delle più grandi crisi generali della storia del capitalismo. Proprio da quelle piazze sono emerse delle  forti e importanti sperimentazioni di scioperi dal basso, convocati dagli stessi movimenti, in grado di spingere e condizionare l’agenda delle organizzazioni sindacali.

Il filo arriva in tantissimi punti del mondo con le esperienze del movimento femminista internazionale di questi anni e con il movimento per il clima. La portata e il peso di questi movimenti, soprattutto per i/le più giovani, è evidente, e anche qui è interessante notare come per entrambi lo sciopero sia stato una delle armi principali, da ripensare e trasformare.
Lo sciopero femminista globale dell’8 marzo contro la violenza di genere, costruito in Italia da Non Una Di Meno, si è fondato sulla partecipazione di milioni di donne, che in particolare sul tema di come fermare realmente un sistema economico in tutte le sue attività, riproduttive oltre che produttive, hanno creato alcune delle sperimentazioni più stimolanti, come le case dello sciopero e le pratiche di cura condivisa collettiva come strumento conflittuale. Gli scioperi per il clima lanciati dal movimento di Friday’s for future hanno posto sul campo la strategia di forzare i governi del mondo a cambiare radicalmente le politiche ambientali per salvare le nostre vite sul pianeta attraverso il blocco economico, scendendo in piazza cercando una connessione con lavoratrici e lavoratori per bloccare in particolare le produzioni più inquinanti proponendo una riconversione di quei settori tutelando i posti di lavoro. Una convergenza tra giustizia sociale e ambientale che danno una forza politica profonda allo sciopero.
Questo filo arriva anche agli anni della pandemia e ritorna anche in Italia, in particolare nella primavera del 2021 con il movimento delle lavoratrici e lavoratori dello spettacolo con le occupazioni dei teatri a Milano, Roma, Napoli e diverse altre città in Italia che si congiungeva all’imponente ondata di occupazione di teatri in Francia. Nelle occupazioni di questi teatri, in particolare del “Piccolo Teatro Aperto” a Milano, si sono incontrate le rivendicazioni di uno dei settori strutturalmente più precario e con gli altri settori sociali più colpiti dalla gestione della crisi pandemica, generando per un breve periodo dei luoghi aperti di mobilitazione generale, sperimentazione democratica, tra tavoli tematici e assemblee permanenti. Non è un caso che la connessione tra questo movimento e altre mobilitazioni, come quella di “Priorità alla scuola” e la lotta dei riders abbia prodotta un’interessante esperienza di sciopero il 26 marzo 2021, in un tentativo di convergenza tra movimenti della scuola, della logistica, del mondo dello spettacolo, che si intrecciavano al No Delivery Day promosso nazionalmente dalle sigle sindacali dei/lle riders.
Le radicali novità politiche di questo ventennio che si connettono in questo filo sembrano riaccendersi e prendere una nuova propulsività nella GKN di Campi Bisenzio, nelle spinte dell’autorganizzazione di quest* 500 lavoratrici e lavoratori e allargandosi alla partecipazione di chi con ess* vuole insorgere: un’occupazione, capace di fermare e trasformare il rapporto al tempo, e di produrre alternative, in termini di pratiche di conflitto, cura quotidiana, visione e prospettiva di gestione del lavoro, del territorio, della società.


Una fabbrica occupata dove imparare a scioperare
La seconda dimensione da analizzare è la qualità della partecipazione al collettivo di fabbrica e la sua relazione al territorio. Come spiega bene in questa intervista Matteo Moretti, uno dei rappresentanti sindacali del collettivo: “Il nostro motto era ‘non importa essere un delegato per fare il sindacato’. Chiunque poteva affacciarsi alla dialettica, interna ed esterna, e partecipare. Tutto il gruppo era quindi cosciente, forte. E questa forza l’abbiamo sempre messa a disposizione.” Questo elemento è centrale perché tocca uno dei problemi strutturali del sindacato negli ultimi decenni: la trasformazione delle strutture sindacali in strutture di servizi più che in strumento di autorganizzazione, a cui delegare la difesa dei propri diritti più che attivarsi direttamente nel proprio luogo di lavoro. Il processo di formazione del collettivo di fabbrica GKN ha una storia lunga di battaglie sindacali che hanno portato a conquiste importanti dentro l’azienda e permesso di attivarsi prontamente di fronte al rischio del licenziamento collettivo.

La partecipazione sindacale diretta dei lavoratori e delle lavoratrici dimostra una forza collettiva trasformativa: un’intelligenza collettiva che ha imparato negli anni a prendersi cura di sé, e da qui è partita il 9 luglio a prendersi cura di un’intera comunità territoriale che sarebbe stata colpita dalla chiusura della fabbrica. Poi, ha allargando ulteriormente, aprendo questa cura a chiunque viva condizioni simili. “E voi come state?” è la domanda a tratti spiazzante posta dal collettivo GKN verso la grande manifestazione del 18 settembre scorso che ha portato 40mila persone a Firenze, per dimostrare come la solidarietà non vada solo data alle vertenze in crisi ma che si possa costruire un processo collettivo che si preoccupa e si prende cura di tutte le lavoratrici e i lavoratori nelle loro diverse condizioni e storie. “Se passano qui passano ovunque” è l’ulteriore formula lanciata fin dall’inizio di questa lotta che spiega esattamente perché la GKN non riguarda solo chi ci lavora, ma che rischia di essere l’apripista per la disfatta di molte altre aziende e che segnala che è nell’interdipendenza tra luoghi di lavoro e lavoratrici e lavoratori si gioca come salvarsi e come vincere insieme. Come racconta lo scrittore Alberto Prunetti, questi lavoratori, oltre che in fabbrica “stavano dentro a reti sociali fuori dal posto di lavoro e queste reti sono state la prima base della mobilitazione perché volantinavano ai genitori dei piccoli calciatori dentro ai circoli Arci dentro a circuiti solidali fatti di sguardi di contatti di corpi di persone che si chiedono come stai?”. E’ questa capacità di costruire reti sociali nelle proprie comunità territoriali, fuori dai cancelli della fabbrica, nella quotidianità e nei più disparati ambiti, che sembra essere l’altro grande punto di forza dell’esperienza della GKN. Una rete informale e invisibile ha dimostrato la sua forza e la sua solidità quando il collettivo di fabbrica ha chiesto sostegno e proposto di insorgere, facendo emergere come era un intero territorio che si sentiva colpito, in ogni singolo punto di questa rete.

In questo la GKN richiama la pratica delle “community organizing” sorte e praticate negli U.S.A. nel secolo scorso, dove la dimensione territoriale, dell’incontro di comunità che abitano e vivono nel medesimo contesto è la premessa forte per costruire nuove forme sindacali e di autorganizzazione.


Scioperare per insorgere
C’è un ultimo elemento fondamentale nella proposta di sciopero generale e generalizzato che il collettivo di GKN ha fatto in uno dei suoi comunicati: che lo sciopero si diffonda tra tutte le organizzazioni e i collettivi, ma anche nel tu per tu, nelle relazioni quotidiane. La forza della proposta di sciopero generale e generalizzato è soprattutto quella di voler parlare a chi un sindacato non ce l’ha, perché non l’ha mai incontrato o perché è diffidente per le forme che conosce, ma non riesce più a tirare avanti da sol*. E dunque, il collettivo di fabbrica chiede, “Se non tu, chi?”. Questa domanda risulta credibile non per la sigla sindacale a cui appartengono gli operai GKN, ma per quello che fanno e che sono.
In questa idea di travalicare le appartenenze sindacali c’è la prospettiva fondamentale di uno sciopero che esca dai suoi canoni, per farsi movimento e rivolta collettiva. In questa prospettiva lo sciopero generale e generalizzato può diventare esattamente un modo, per fermare il tempo, occupare spazi e produrre e riprodurre alternative: affermare il potere dei senza potere.
La domanda a questo punto è: come si può costruire questo tipo di sciopero insorgente?
Quali luoghi e realtà nel paese possono raccogliere, anche parzialmente, questa proposta?
I due assi qui analizzati, cioè la partecipazione collettiva diretta e la costruzione di reti territoriali, si costruiscono in anni di lavoro, ma possono essere delle piccole bussole per ritrovarsi in questo percorso.
Perché non sembra sufficiente la costruzione dello sciopero nelle sole aziende in crisi o nei luoghi di lavoro già sindacalizzati - per quanto fondamentale. Non a caso l’”Insorgiamo tour” fatto dal collettivo di fabbrica GKN in tutta Italia, e in Toscana in particolare, si è mosso sì tra luoghi di lavoro e riunioni di RSU, ma anche e soprattutto in circoli Arci, spazi sociali, associativi, beni comuni autogestiti. Sono stati peraltro i fulcri dell’attivazione solidale e mutualistica di questi anni di pandemia, che hanno fatto emergere con forza la loro capacità di costruire reti sociali nei propri territori.
Quale può essere il contributo di queste esperienze e luoghi per la costruzione di uno sciopero generale e generalizzato? Possono divenire delle case insorgenti dello sciopero? Queste reti mutualistiche territoriali possono sviluppare la propria forza anche in senso conflittuale? E se sì, come?


La novità di fine anno del passaggio di proprietà della GKN a Francesco Borgomeo, che ha acquistato la fabbrica, ritirando la messa in liquidazione e i licenziamenti con l’obiettivo di traghettare la fabbrica verso un nuovo acquirente in un piano di reindustrializzazione, cambia ovviamente lo scenario ma non la sostanza e la necessità di questo percorso di mobilitazione, come ha dichiarato chiaramente il collettivo di fabbrica.
Come recita l’ormai famoso canto nato dalla lotta GKN: “che fatica che ti chiedo, oggi devi scioperà”. Il percorso è sicuramente faticoso e impegnativo, ma come dicono chiaramente quest* lavoratrici e lavoratori lo dobbiamo percorrere fino in fondo, per non avere rimorsi, ma la consapevolezza di averci provato con tutte le risorse possibili. Che la fatica possa valere la gioia, la bellezza, la vita di fermare il mondo per cambiarlo, insorgendo.

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