Antonella Angelini*

Una manciata di giorni fa, in un intervento sul Corriere, Paolo Giordano, citava la seguente frase di Marguerite Duras: “Già s’intravede la pace. È come un grande buio che cala. È l’inizio dell’oblio”. Ammonendo con ragione contro il frequente accostamento tra guerra e pandemia, Giordano esortava a prevenire l’oblio stilando sin d’ora la lista di tutto ciò che, dopo, non si vorrebbe dimenticare. Parlare di un prima e un dopo è, intendiamoci, artificio labile e, in questo caso, è particolarmente manifesto il suo intento confortante. Ma il paradosso di associare il buio al dopo rende la riflessione quanto mai ancorata al presente, un tempo che parimenti impone di resistere ad una gravità oscura. Almeno così ho l’impressione, soprattutto quando, a fine lista, arriva il monito a non dimenticare che la pandemia non ha avuto origine in un complotto militare, ma nel “nostro rapporto compromesso con l’ambiente e la natura, nella distruzione delle foreste, nella sventatezza dei nostri consumi”.

Non sono né l’originalità, né forse la pertinenza di queste parole a colpirmi, quanto piuttosto il loro modo di farsi spazio nella mente, che di questi tempi riguadagna agilità, a scapito di un corpo vincolato. Non fatico a visualizzare il processo che pare essere alla radice della propagazione del virus, ossia il passaggio di agenti patogeni dagli animali all’uomo. Proiettarmi nel luogo del suo svolgersi, nelle periferie mobili di una provincia lontana (se non remota, per noi), ha però qualcosa di elusivo, una distanza non annullata dalla velocità di circolazione delle immagini di quei luoghi. Si materializzano con nitidezza, invece, i disastri prossimi, dei nostri luoghi dai quali ora siamo tutti, a diverso titolo, crudelmente tagliati fuori. Il mio luogo, seppure ne sia lontana da ben prima di questo confinamento, è la Puglia. E fra le molte immagini che qui traducono e incarnano il rapporto compromesso con la natura, si stagliano in me quelle degli ulivi squarciati, con “arti amputati a forma di domanda”, come dice il poeta Stephen Spender.

L’associazione tra pandemia e crisi degli ulivi pugliesi, mi accorgo dopo, deve in parte, e per lo più inconsciamente, alla semantica. E ciò a due livelli: nella pervasività dei termini epidemiologici, primi tra tutti quelli di contagio e quarantena, e nella centralità del concetto di emergenza. Un nesso tra questi piani, è evidente. Ora, senza voler fare paralleli grossolani, mi sembra che in entrambi i casi – della pandemia mondiale e del disseccamento degli ulivi in Puglia – valga questo: nel binomio contagio-emergenza, è il primo termine a sostenere il secondo. Riuscire efficacemente a mobilitare, intercettare o appoggiarsi sul linguaggio della scienza, serve a instaurare e sostenere l’argomento dell’eccezionalità emergenziale. Il politologo Ivan Krastev va oltre, sostenendo che è più specificamente il ritorno della fiducia negli esperti a rendere possibile il già visibile ritorno dello stato nell’organizzazione di una risposta collettiva alla pandemia e nel salvataggio dell’economia. Ne offre conferma il caso pugliese, dove all’assenza di evidenze scientifiche convergenti, e dunque tali da suscitare o richiedere fiducia, si è contrapposta la quasi univoca attenzione delle istituzioni all’eradicazione della Xylella. Risultato: un dibattito pubblico che, avvitato sul tema dell’emergenza, riflette a stento la cronicizzazione di molti aspetti della crisi e la sua persistente polarizzazione.

Ma la semantica della crisi offre anche altri spunti per riflettere su ciò che non vorremmo fosse dimenticato dopo il coronavirus. Uno tra questi, su cui vorrei soffermarmi, è cosa parlare di emergenza faccia emergere e cosa no. A ben vedere, infatti, è proprio perché il rapporto compromesso con la natura rientra appena nella parte emersa, per così dire, di questa crisi, che esso è particolarmente a rischio di oblio. Il termine di emergenza tende ad evidenziare più gli epifenomeni, le manifestazioni esterne, che i processi, inclusi quelli di causa e effetto, sottostanti alla situazione che intende descrivere. Riguadagnare questa dimensione mi sembra invece cruciale per articolare la complessità alla quale siamo confrontati. Qui, l’articolazione riguarda soprattutto i processi in corso in realtà geografiche tra loro distanti. È significativo, per esempio, che, sullo sfondo generale della pandemia, nello spazio mediatico locale continui il martellante richiamo all’avanzare della Xyella. L’impressione è che le due crisi si sovrappongano, come se si verificassero casualmente e semplicemente nello stesso momento. Ma non sarebbe forse opportuno interrogarsi su una qualche forma di conseguenzialità tra l’una e l’altra? Non avrebbe forse senso chiedersi come i processi di causa ed effetto di una impattino su quelli della seconda?

Che entrambi gli scenari siano la conseguenza di un sistema di produzione capitalistica è un dato di fatto, ma c’è di più. Uno degli effetti principali della situazione attuale è quello di colpire in maniera ineguale le filiere agricole, favorendo nettamente il segmento di queste inserito nella catena della grande distribuzione. Ora, già da tempo, la vicenda Xylella ha prodotto e favorito uno spostamento dell’utilizzo del suolo pugliese, laddove era ancora adibito ad uso agricolo, verso la coltura di varietà olivicole adatte ad uno sfruttamento super-intensivo. Ne offrono uno spaccato dettagliato gli studi della geografa Margherita Ciervo, che rintracciano la costellazione di provvedimenti – dagli espianti forzati ai contributi pubblici riservati al reimpianto di alcune specifiche varietà – che hanno cambiato i connotati di intere aree dell’alto e basso Salento. La crisi attuale farà da cassa di risonanza per l’ulteriore marginalizzazione di produzioni a filiera corta. Per di più, dato l’elevato costo ambientale delle monocolture intensive in questione, l’effetto sarà appunto quello di amplificare e propagare il rapporto compromesso con la natura all’origine della pandemia.

Tra questi fenomeni non esiste, ovviamente, una causalità diretta. Ma non si può neppure dire che i processi di causa-effetto rispettivamente in opera siano privi di ogni correlazione. Il punto è, infatti, che prendere in considerazione esclusivamente una causalità di tipo lineare – come sarebbe individuare le pratiche che hanno condotto al salto di specie del coronavirus e alla sua propagazione in territorio cinese prima e, progressivamente, in buona parte del globo – non basta e non riesce a proteggere dal rischio di tralasciare, forse più che di dimenticare, le ramificazioni della pandemia in corso, i processi sui quali essa sta impattando, potenzialmente ampliandone gli effetti, e con cui condivide, almeno in parte, una matrice antropogenica. Aggiungerò, per concludere, che la riflessione cui invitava Giordano necessita di essere completata da una componente strategica su come interrompere il salto non di specie, come dicono gli epidemiologi a proposito degli agenti patogeni, ma dei processi di una crisi ad un’altra. Nel caso specifico che ho cercato di analizzare, del legame tra pandemia e crisi degli ulivi in Puglia, mi pare che la chiave per attutire la propagazione di un rapporto compromesso con la natura sia nel consolidare e innovare le forme dell’alleanza tra produttori e consumatori. È infatti a causa dell’assenza di forme di collegamento resilienti tra queste figure, e le loro rispettive entità di rappresentanza, che la crisi in corso porterà ad un ulteriore spostamento verso pratiche di produzione agricola già altamente distruttive, compromesse e compromettenti per il nostro rapporto con la natura e i consumi.

* Ricercatrice universitaria in diritto internazionale e attivista di Diritti a Sud e FuoriMercato

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