Qual è il minimo comune denominatore possibile per provare ad ascoltarci ancora, per provare a percorrere un tratto di strada comune?

Piero Maestri

COSA È SUCCESSO, A NOI…..

Nel dicembre dello scorso anno quasi tutt* noi avevamo giudicato il 2020 come il peggiore anno mai vissuto – anche se ovviamente ognun* ha una sua personale classifica di annus horribilis.

Il 2021 non è però stato da meno e, sommando tutto, sembra evidente che questi 22 mesi sono stati pesanti per ognun* di noi, per le nostre relazioni personali, sociali e politiche.
Questi mesi hanno ridisegnato le nostre relazioni, sia personali che collettive. Difficile indagare e raccontare le contraddizioni, le rotture, le prese di distanza – ma anche nuovi avvicinamenti e ri-avvicinamenti che in questi mesi si sono prodotti. Rotture anche di amicizie e personali, provocate o scatenate da un diverso approccio alla pandemia, alle chiusure, alle decisioni governative, alle proprie paure, ai propri sentimenti di libertà, cura, empatia….

Ma siamo ancora qui a provarci, a indagare cosa sia successo tra noi sul piano politico e sociale – soprattutto per capire da dove possiamo riallacciare relazioni, se vorremo farlo. Ci interessano qui le relazioni sociali, prima ancora che politiche (posto che per noi le relazioni sociali e l’azione sociale sono oggi direttamente politiche).

 

FALSO MOVIMENTO

Se proviamo ad alzare lo sguardo, a livello globale sembra che non si siano prodotte rotture sistemiche o trasformazioni politiche profonde anche come conseguenza dell’intersecarsi delle diverse crisi – sociali, politica, economica e pandemica.

Nell’occidente capitalista, così come nelle principali economie del pianeta – Cina su tutte – non solo assistiamo ad una tenuta di governi e sistemi politici, ma alla loro aumentata capacità di sopravvivenza e riproduzione, per quanto autocentrata e senza una legittimazione esplicita.

I governi occidentali sono riusciti a gestire l’emergenza senza particolari scossoni, riducendo allo stesso tempo lo spazio politico e, potremmo dire, “mentale” dell’opposizione.

Essere riusciti a tenere per due anni il il centro dell’attenzione sulla pandemia e sulle misure per contrastarla, nascondendo i provvedimenti economici e sociali dietro la mascherina obbligatoria dell’emergenza è stato un successo che va loro riconosciuto.

 

CONFORMISMO

Questa strategia e pratica di governo – mi riferisco all’Italia ma credo valga per tutto il continente europeo – è stata resa possibile e aiutata da un conformismo sociale e del mondo dell’informazione senza precedenti.

Non solamente il governo Draghi è stato salutato come l’unico possibile, il “governo dei migliori”, quindi nel suo complesso inattaccabile, ma sembra impossibile poter criticare qualsiasi singolo provvedimento. E quando qualcuno prova a farlo viene deriso e considerato fuori dal tempo e dalla storia – come è avvenuto nel caso dello sciopero generale di Cgil-Uil.

Paradossalmente, ma non troppo, l’unico fenomeno sociale a cui è stato dato risalto è quello delle manifestazioni NoVax/No Green Pass – in qualche modo l’avversario preferibile e quasi elettivo, perché facilmente etichettabile e “comprensibile” in un’ottica di “scontro di civiltà” e comunque senza mai entrare sul piano della dialettica politica, nemmeno antagonista.

Nell’insieme è stata data un’immagine di questo governo basata sulla sua stabilità, la sua legittimità politica e sociale e la sostanziale unanimità nel sostegno di cittadine e cittadini.

Non va naturalmente sottovalutata l’accelerazione delle tendenze autoritarie iniziate ben prima dell’inizio della pandemia, attraverso una legislazione che affida agli esecutivi e ai vari “commissari tecnici” la gestione di emergenze continue e delle politiche che “ci chiede l’Europa”.

La gestione della pandemia ha reso possibile dare un giro di vite a queste tendenze, indubbiamente. E il “governo dei migliori” ha mostrato la faccia peggiore mettendo sempre al centro il primato del profitto, sia nelle scelte di gestione della pandemia come in quelle sugli altri terreni (uno su tutti possiamo citare il peggiore tra i migliori, il ministro Cingolani).

 

LA SCOMPARSA DELLA SINISTRA POLITICA

In questo quadro – allo stesso tempo causa ed effetto dello straniamento di fronte alle politiche di governo – abbiamo assistito alla quasi definitiva scomparsa di quella che si è definita “sinistra radicale”, almeno per quanto riguarda le sue numerose espressioni politiche e partitiche – tutte indistintamente afone, inefficaci e ininfluenti nel contrasto alle scelte governative (o anche sul piano locale).

Non rimpiangiamo questa scomparsa anche perché pensiamo che da anni queste formazioni non hanno prodotto quasi nulla di buono o utile. Eppure, malhgrado questa fine ingloriosa lasci grandissimi spazi aperti, allo stesso tempo non ha prodotto e non sembra produrre a breve qualcosa di nuovo e interessante sul piano della soggettività direttamente politica.

Non parliamo di improbabili e inutili “unità” o appelli alla “ricostruzione” del campo politico della autodichiarata “sinistra radicale” (tantomeno “comunista”). Ma da qualche parte dovremo provare a ricostruire un senso comune, luoghi di relazione comuni, magari anche un’idea del futuro e del come costruirlo oggi.
E non basta, non basterà – non è mai bastato, in realtà – il richiamo alle grandi sfide globali (il cambiamento climatico, la tragedia delle migrazioni represse, il mondo maschile che cerca di difendere privilegi con violenza e discriminazioni, rapporti di lavoro sempre più precari e iper-sfruttati….). Non basta non solamente perché abbiamo mille idee e concezioni diverse su come affrontarli e ci dividiamo in tanti gruppi con una propria razionalità propositiva, ma soprattutto perché non riusciamo ad uscire da un narcisismo politico e identitario che limita il nostro sguardo e la nostra capacità di ascolto.

 

CRISI DEI MOVIMENTI

Più preoccupante e materia su cui riflettere e spendere le nostre energia è la crisi della mobilitazione sociale, dei movimenti sociali nel loro insieme.

La dinamica della pandemia, le decisioni governative, le chiusure e così via hanno certamente influito sulla capacità di mobilitazione ma l’impressione è che ci sia stato un generale ripiegamento su sé stessi dei principali movimenti sociali e di moltissimi spazi di attività sociale e politica alternativa, per dinamiche che vengono prima e vanno oltre l’emergenza pandemica.

Naturalmente non sono mancate manifestazioni anche importanti del movimento femminista, di quello ecologista/contro il cambiamento climatico così come non sono mancate lotte di lavoratrici e lavoratori per la difesa del lavoro, del reddito e della dignità. Così come a livello globale non possiamo dimenticare l’importanza del ciclo lungo – ancora tutto da indagare e riscoprire – delle lotte dei movimenti Occupy, de l@s indignad@s delle rivoluzioni della regione araba e ancora negli ultimi anni di Black Lives Matter.

Ma queste mobilitazioni sono state quasi sempre (a volte loro malgrado) frammentate, poco in dialogo reciproco, incapaci di concentrare lo sforzo comune su obiettivi volta per volta definiti collettivamente e discussi apertamente.

Non sottovalutiamo l’importanza della manifestazione di Nudm dello scorso 27 novembre, piuttosto che la mobilitazione giovanile in occasione della Cop26, così come la capacità del collettivo dei lavoratori della GKN di parlare a tutto il mondo delle lavoratrici e dei lavoratori chiamandole/i a “insorgere”. Allo stesso modo pensiamo siano importanti chiamate a mobilitazioni generali di “convergenza”, prodotte da diversi soggetti.

Ma ancora non bastano a produrre quel salto che permetta a tutt* di riconoscersi e riconoscere quelle lotte come proprie e di darsi luoghi più stabili di confronto e scambio.

 

UNA VOGLIA (INSANA?) DI COMUNITÀ

E’ vero che i primi mesi della pandemia hanno visto una crescita esponenziale di attività e spazi di mutuo soccorso, profondamente positiva e generativa di possibili nuove relazioni sociali.

Dobbiamo però riflettere sui rischi che questa possa diventare una forma di ripiegamento e di costruzione di spazi omogenei che si vogliono “bene comune” ma possono risultare chiusi e poco inclusivi. Il “fare comunità” sembra ridare fiato ad un pensiero “totalizzante” e onnicomprensivo del proprio agire sociale.

Come scriveva Sergio Trammo nel giugno dello scorso anno: “La questione della comunità … ancora oggi trascina con sé quella “sedicente” anima originaria che, come sottolinea Bauman, si trasforma in una diffusa “voglia” poiché è ritenuta in grado di rispondere elasticamente e compiutamente a molti dei bisogni che sorgono dai problemi individuali e collettivi generati dalla contemporaneità. La comunità, in tutte le forme concentrate o diluite con cui si presenta, è tornata protagonista del dibattito politico e culturale: che ciò sia il segno della sua intrinseca forza o, invece, della debolezza di altre prospettive politico-culturali, è però tutto da vedere”.

Siamo profondamente convint* che le pratiche di mutuo soccorso, le sperimentazioni di spazi bene comuni, la costruzione di alternative al mercato qui e ora siano necessarie e fondative di una nuova politica di ytrasormazione politica e sociale – ma dobbiamo riflettere sui limiti e i rischi di queste pratiche, provando sempre a valutarne il carattere trasformativo e la capacità di apertura a* soggett* che devono essere dirett*protagonist* della trasformazione sociale.

 

UNO SGUARDO E UN’ATTITUDINE INTERSEZIONALI

Negli ultimi anni abbiamo più volte sottolineato e dichiarato la necessità e le possibili intersezioni delle varie lotte e dinamiche sociali – provando anche a capire quale fosseil nostro stesso ruolo sociale in quelle dinamiche di potere e di relazione. Restiamo convinté che l’intersezionalità sia l’unica strada praticabile per una trasformazione radicale e che possa vedere protagonist* tutt* le soggettività sociali.

Ma uno sguardo e un’attitudine intersezionali hanno bisogno di attenzione al pensiero e alle pratiche di ogni soggettività altra da noi, di ascolto e non di giudizio sul loro grado di aderenza ad un’idea di intersezionalità tutta da inventare.

La curiosità e la partecipazione alle mobilitazioni sociali anche parziali, specifiche, particolari deve essere molto forte, perché non abbiamo già una chiave interpretativa data.

 

UN PENSIERO GLOBALE DEI BISOGNI RADICALI

Luca Negrogno ha scritto: “Ritorna la necessità di un pensiero dei bisogni radicali, nel senso che non sono più pensabili forme di emancipazione individuali senza che esse siano collocate nell’ambito della sostenibilità sistemica; ritorna in primo piano una questione altrettanto radicale, dimenticata con la sconfitta e la dispersione storica del movimento operaio: quella dell’uguaglianza, questa volta intesa non più solo come questione che riguarda le classi sociali, ma come una questione radicale di riorganizzazione del mondo in forme che possano tenere insieme il delicato equilibrio tra libertà e sostenibilità, quindi sulla base di una profondissima redistribuzione dei rischi, ferma restando l’indiscutiblità delle conquiste individuali nel campo dei diritti civili e dell’autodeterminazione delle propria identità, insieme a tutte le nuove conquiste che si spera ancora verranno in questo ambito.”

Qualcun* altr* ha parlato di bisogno urgente di una teoria generale. Nulla a che vedere con una riscrittura a tavolino di un quadro teorico complessivo e coerente, quanto una capacità collettiva di darsi una direzione di lavoro sociale e politico comune, come è stato tentato dal movimento altermondialista, sul piano dell’opposizione alla rimondializzazione liberista e su quello delle proposte di mobilitazione e di contenuto dell’alternativa possibile e necessaria.

Troviamo sconcertante quella sorta di targettizzazione dei movimenti per cui – semplificando senza voler banalizzare – NUDM si occupa di violenza, FFF di ambiente, BLM di razzismo. Benché siamo profondamente convint* che tutti e tre siano necessari e stiano determinando il dibattito pubblico, troviamo che questa netta separazione di ambiti ci faccia sfuggire il fatto che le tre questioni sono intrinsecamente legate e che dobbiamo, il prima possibile, costruire piattaforme comuni, intrecciate, sovrapponibili

 

UNO SPAZIO COMUNE LARGO

E allora ci chiediamo: qual è il minimo comune denominatore possibile per provare ad ascoltarci ancora, per provare a percorrere almeno un tratto di strada comune? Da dove cominciamo? Con chi cominciamo?

Nelle ultime settimane sono usciti due contributi che ci pare cerchino di affrontare questa stessa domanda impellente.

Il primo di Dario Firenze, pubblicato su fuorimercato, parte da una valutazione dell’esperienza di questi mesi di lotta del Collettivo dei lavoratori della GKN e dall’idea pratica dello “sciopero insorgente”: “La domanda a questo punto è: come si può costruire questo tipo di sciopero insorgente? Quali luoghi e realtà nel paese possono raccogliere, anche parzialmente, questa proposta? I due assi qui analizzati, cioè la partecipazione collettiva diretta e la costruzione di reti territoriali, si costruiscono in anni di lavoro, ma possono essere delle piccole bussole per ritrovarsi in questo percorso.
Perché non sembra sufficiente la costruzione dello sciopero nelle sole aziende in crisi o nei luoghi di lavoro già sindacalizzati – per quanto fondamentale. Non a caso l’”Insorgiamo tour” fatto dal collettivo di fabbrica GKN in tutta Italia, e in Toscana in particolare, si è mosso sì tra luoghi di lavoro e riunioni di RSU, ma anche e soprattutto in circoli Arci, spazi sociali, associativi, beni comuni autogestiti. Sono stati peraltro i fulcri dell’attivazione solidale e mutualistica di questi anni di pandemia, che hanno fatto emergere con forza la loro capacità di costruire reti sociali nei propri territori.
Quale può essere il contributo di queste esperienze e luoghi per la costruzione di uno sciopero generale e generalizzato? Possono divenire delle case insorgenti dello sciopero? Queste reti mutualistiche territoriali possono sviluppare la propria forza anche in senso conflittuale? E se sì, come?”

Il secondo è un contributo collettivo, proposto dal Tavolo salute e scuola di Priorità alla scuola (PAS), che prova ad andare oltre la lotta condotta in questi due anni per rimettere al centro la funzione sociale generale della formazione scolastica. “Schiacciatз sull’emergenza, non siamo statз capaci di smascherare le contraddizioni che si sono prodotte in questi mesi, né di denunciare a fondo l’eziologia della crisi in corso; non abbiamo provato a ripensare modelli di welfare capaci di confrontarsi con l’impasse attuale, né a determinare cambi di rotta dentro il paradigma di sviluppo che ci trascina qui. Vogliamo però sottolineare quanto questo dibattito sia tuttora urgente e quanto sia necessario provare a intrecciare riflessioni e rivendicazioni sulle infrastrutture pubbliche e sociali, la scuola, la salute, il reddito, l’ambiente, la cura, per sperimentare la nostra capacità di proposta di nuove prospettive.

Il desiderio di condividere queste riflessioni nasce anche dal fatto che, negli ultimi tempi, molti equilibri sono mutati. Anzitutto lз studentз sono tornatз a rivendicare lo spazio pubblico e simbolico della scuola….”

Ecco, il punto di ri-partenza potrebbe essere proprio questo: la costruzione di spazi/luoghi che permettano di andare nella direzione della diffusione – organizzata e solidale – di spazi pubblici dove sperimentare e socializzare formazione, cura, attivismo sociale solidale.
Ri-partenza che non significa cominciare da zero, ma da quello che è abbiamo pensato e fatto in questi anni, dalle relazioni di aiuto, sostegno, cura reciproca, attenzione ai bisogni sociali – come sempre spuri, contraddittori, a volte difficili da gestire.

Se è vero che non esiste e non può esistere una risposta valida per tutto e tutt*, magari tante risposte parziali possono avvicinare una risposta globale, e avvicinarci tra noi. Dove ci incontriamo? Dove proviamo a parlare, condividere queste pratiche mutualiste, il nostro ascolto e testimonianza del disagio sociale? Perché non pensiamo a organizzare insieme un luogo sperimentale e permanente (a volte gli ossimori possono essere generativi) costituito da delegat* delle proprie Comuni autogestite, dei propri spazi indipendenti?

 

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