Insegnamenti della lunga quarantena

Piero Maestri

Iniziare un articolo/riflessione con una lunga auto-citazione non è forse particolarmente elegante, ma ugualmente parto da un brano di un articolo scritto non molto tempo dopo l'inizio di questa emergenza per provare a proporre qualche nuova riflessione a partire da quelle già espresse. Per questo anche questa volta continuo a scrivere in prima persona, come non si dovrebbe fare ma in questo caso mi pare ancora appropriato...

Scrivevo allora "Questa emergenza ha mostrato a mio avviso due aspetti riguardo questa questione: se da un lato ha reso evidente quell’inesistenza di spazi pubblici di cui parla Carlotta Caciagli, dall’altra ci permette di ragionare sulla nostra idea di “spazio pubblico”. In questo caso si tratta di qualcosa che si fonda su legami di appartenenza e di socializzazione che vanno oltre l’esistenza di uno spazio fisico e che possono esprimersi anche attraverso la costruzione e il consolidamento di quei legami. Mi spiego. Mai come in questi giorni ci accorgiamo di quanto Ri-Make (ma è solo un esempio molto personale, che vale per moltissine esperienze di spazi sociali) sia davvero un bene comune ed uno spazio pubblico. È uno spazio di relazioni aperto, necessario, capace di rispondere ai bisogni e creare legami sociali. Non una comunità chiusa, ma una società basata sul mutualismo, aperta, dove nessuna/o resti sola/o.

Lo spazio fisico è evidentemente un mezzo necessario per poter sviluppare fino in fondo questa creatività e relazione sociale, ma non è sufficiente senza questa continua pratica di creazione di spazio pubblico.

E dopo? Cosa succederà quando l’emergenza sarà finita, o più probabilmente sarà finita la fase acuta dell’emergenza? Sinceramente non sopporto la retorica del “niente sarà come prima”: se da un lato è una banalità (qualsiasi evento storico, tanto più se globale, muta profondamente aspetti anche decisivi della nostra vita), dall’altro perché le cose cambino davvero e “nulla” sia come prima serve anche un’azione politica e sociale e non solamente le conseguenza di un evento globale."

Ora inizia una fase nuova, nella quale l'emergenza non è finita, ma riprendono in una forma più o meno rapida le attività produttive, commerciali, relazionali. Meno rapida sembra invece la ripresa delle attività culturali, politico-sociali o comunque collettive e indipendenti.

Questo pone immediatamente una domanda a chi - come i vari soggetti che danno vita a Fuorimercato – fonda la propria esistenza sulla costruzione di legami sociali, di esperienze collettive, di spazi sociali aperti e programmaticamente intesi e vissuti come "beni comuni".

Come sarà la nostra attività nelle prossime settimane e nel prossimo futuro? Quanto l'esperienza mutualista e di relazioni costruite o consolidate in questa emergenza ci consegna un nuovo o comunque ancora più forte senso dell'esistenza dei nostri spazi, delle nostre imprese collettive?

L'emergenza mi pare abbia dimostrato, forse semplicemente confermato, quanto siano importanti e determinanti i nostri spazi sociali. Spazi fisici, certamente, ma soprattutto spazi di relazione, di impegno collettivo e di aggregazione di soggettività che in questi mesi hanno sentito dentro di sé il peso e il rischio dell'isolamento e hanno voluto spezzarlo, per sé e per le/gli altre/i, attraverso attività di sostegno e mutualiste.

Ancor più mi pare che questi mesi abbiano confermato la necessità di un'attitudine che abbiamo sempre teorizzato ma non sempre siamo stati capaci di praticare: ascoltare i bisogni sociali, i bisogni delle donne e degli uomini che rischiano di essere lasciate/i indietro, delle sfruttate e degli sfruttati. Di ascoltare le storie che sul nostro territorio vanno raccolte e raccontate. E messe in relazione con le nostre vite, i nostri bisogni, le nostre esperienze sociali.

Quando – ormai 7 anni fa – decidemmo di occupare e recuperare ad uso sociale uno spazio che avremmo chiamato Ri-Make, una domanda che ci ponemmo riguardava il rischio di creare uno spazio chiuso, di dare vita ad una bella esperienza che avrebbe rischiato di crescere su sé stessa, che dava la possibilità di organizzare belle iniziative per chi già frequentava lo spazio con le sue tante e importanti idee e desideri.

Inutile dire che molto simile, in una versione perfida e un po’ rosicona, era la critica di chi ci accusava di voler creare "un'isola felice", uno spazio autocentrato e inefficace.

Quello che sta alla base della nascita di Fuorimercato andava in direzione "ostinata e contraria" a quel rischio, e questi due mesi hanno dimostrato che dentro i nostri spazi e le nostre attività la consapevolezza di nuotare in mare aperto è forte.

In questi mesi abbiamo avuto tutte e tutti chiaro che un bene pubblico ha un senso se ascolta le voci delle persone sfruttate, abbandonate, discriminate, isolate – fornendo loro un luogo dove costruire protagonismo, socialità, conflitto, mutuo soccorso.

Un compagno carissimo, Spartaco Codevilla, che lavora alla RiMaflow ha espresso in maniera molto efficace con un post su FB questa consapevolezza, che sgnifica anche passione ed emozione: "Avessi tempo per le astrazioni o amassi indulgere in dotte dissertazioni oggi scriverei qualcosa che dice come, dati alla mano, in questa situazione, almeno sul breve periodo, strumenti di autogestione e mutualismo siano i più efficaci ad affrontare la crisi. Tutte le fragilità delle nostre reti informali, così elementari a volte e prive di organicità, risultano straordinariamente duttili e flessibili. Anni di costruzione di relazioni rivelano, in una fase di totale default del Sistema, un intero sistema nervoso fatto di centinaia di rivoli, piccole o grandi interconnessioni che magari partono da una parrocchia e finiscono in uno spazio sociale. In mezzo tutta la declinazione possibile della solidarietà come unica risposta, e per ciò stesso, imperativa, al disastro che il maledetto sistema ha prima provocato e poi gestito criminalmente. É il passo esile della farfalla contro la tetragona immobilità del gigante......", per poi concludere " temo non riuscirei a rendere fino in fondo l'emozione di questi giorni, il senso di appartenenza. L' aver trovato uno strumento, una pratica collettiva che ti solleva, almeno in parte, dal senso di impotenza che questa situazione ha creato. Ecco, dovessi scrivere qualcosa, forse mi limiterei a dire dell'immensa fortuna che sento nel vivere la rottura epocale generata da questo virus dalla ridotta privilegiata di una piccola fabbrica autogestita. È l'eresia bellezza...".

E ora quindi cosa facciamo? Compito politico determinante nel prossimo futuro sarà certamente la ricostruzione di un servizio sanitario pubblico basato sulla tutela della salute collettiva e il protagonismo delle cittadine e dei cittadini nella gestione delle strutture socio-sanitarie territoriali.

E se questo sarà un compito che naturalmente ci riguarda, il centro di gravità permanente delle nostre attività è semplice – e quindi difficile a farsi: ascoltare i bisogni di chi vive sul territorio, organizzarci insieme a questi soggetti per rispondere a quei bisogni, metterli in rete, creare conflitto e gli strumenti perché questo sia sostenibile per tutte e tutti.

In questi mesi ci siamo dovuti confrontare con bisogni sociali molto materiali – dal cibo all’abitazione, dal reddito alla socializzazione del lavoro di cura, dalla formazione alla relazione affettiva. E l’impegno che ci siamo prese/i, condiviso da tante e tanti che in precedenza non erano attiviste/i dei nostri spazi e a volte nemmeno li avevano frequentati, ci indica quello che dovremo fare anche in questa nuova fase:

  • riprendere e rilanciare la riflessione e la pratica di un’alimentazione sana e ricca di qualità ambientale e sociale. E per tutte e tutti. Questo significa trovare un equilibrio avanzato tra la distribuzione di pacchi alimentari a chi non ha i mezzi per fare la spesa e la diffusione di autoproduzioni, prodotti dell’agricoltura contadina, filiere corte e virtuose;
  • sostenere le produzioni e le forme di economia altra esistenti in migliaia di spazi sociali, intesi in senso largo, autogestiti e cooperativi;
  • mantenere una pressione politica per l’istituzione di un vero reddito universale per tutte e tutti e allo stesso tempo sostenere le lotte per i diritti di lavoratrici e lavoratori attraverso la Cassa nazionale di solidarietà e altre forme di mutualismo dal basso;
  • praticare nei nostri spazi e grazie alla loro esistenza sul territorio esperienza di socializzazione del lavoro di cura, sia retribuito che mutualistico;
  • consolidare il senso e l'esistenza in quanto beni comuni degli spazi recuperati e delle nostre esperienze territoriali.

Con quali risorse? Evidentemente le risorse principali derivano dalle nostre stesse produzioni, materiali, immateriali e sociali. Da quelle si devono ricavare risorse mutualistiche, il sostegno alle nostre imprese sociali; attraverso la loro messa in rete, in uno scambio continuo che non riproduca il meccanismo commerciale dell'economia di mercato ma margini di retribuzione adeguati ai bisogni sociali e al valore d’uso dei prodotti scambiati (materiali e immateriali)

Risorse economiche possono naturalmente essere rivendicate anche alla finanza pubblica – non per uno scambio basato sull'idea della “sussidiarietà” o di un "welfare non profit", quanto nel riconoscimento della “redditività sociale” dei nostri spazi, nella valorizzazione delle iniziative in risposta di bisogni sociali altrimenti non soddisfatti. E tutto questo in una relazione conflittuale, perché non possiamo né vogliamo fare da tappabuchi alle discriminazioni e alle mancanze del welfare pubblico – quanto evidenziare questi limiti e organizzare i soggetti discriminati e sfruttati affinché possano ottenere nella forma del diritto quello che oggi viene negato o concesso una tantum come assistenza caritatevole.

Naturalmente tra le risorse a nostra disposizione ci sono proprio gli spazi recuperati, gli spazi pubblici che dobbiamo invadere con i bisogni sociali, i luoghi della cultura e dell’aggregazione sociale che non possiamo lasciare alla logica del profitto – perché abbiamo capito ancora di più in questi mesi che la sopravvivenza e la valorizzazione di questi spazi dipende dalle loro relazioni sociali e dal loro grado di apertura al protagonismo di tante e tanti.

Abbiamo anche imparato in questi mesi il valore insostituibile dello scambio delle esperienze, il tessere una rete che le renda più efficaci e che non lasci nessuna di queste indietro ma le sappia sostenere tutte. Uno scambio che non implichi la ricerca spasmodica di egemonie fuori luogo e fuori tempo, ma la continua formazione e autoformazione alla costruzione di società.

Come scrive Paolo Cacciari, dobbiamo "liberare spazi di relazioni autonome nelle campagne e nelle città, nei borghi e nei quartieri, nella sfera della produzione e in quella della cura della vita. Creare reti solidali, sistemi di mutuo aiuto e di autogestione di beni sottratti alle logiche del mercato e messi in comune. Anticipare e preparare nel concreto, con pratiche quotidiane, la società in cui vorremmo vivere".
E in tutto questo diventa fondamentale allargare ogni spazio di comunicazione, trovando le parole giuste per raccontare le nostre esperienze e ascoltare i racconti di in genere non ha voce o non viene ascoltata/o.

Questi mesi di moltiplicazione di voci, di tentativi di raccontarsi e di scambiare esperienze comuni a partire da bisogni ed esperienze diverse, singolari, incomprimibili dovrebbero convincerci della necessità di trovare spazi di comunicazione condivisi, di organizzazione del conflitto e della nostra soggettività politica. Niente a che vedere con riproposizioni patetiche di rappresentanza politica, quanto l’autorganizzazione e la ricerca caparbia di strade comuni per sostenere la nostra resistenza e conflittualità sociale.

Perché in questi mesi una cosa certamente l’abbiamo imparata: nessuna/o si salva da sola/o, non da una pandemia – quando il legame tra tutela della propria salute e di quella delle/degli altre/i è inestricabile - non dallo shock politico ed economico che qualcuno prepara in seguito a quella pandemia.

 

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