La nostra agroecologia è politica. Produrre cibo, costruire movimento.

“Our agroecology is political”, recita un comunicato de La Via Campesina.

Un’affermazione carica di significato che vuole sottolineare l’enorme potenziale di trasformazione economica, sociale e culturale diquesto paradigma che sempre più si sta affermando tra i movimenti sociali e contadini. Un approccio in grado di ridefinire il modo in cui è possibile produrre cibo cooperando con gli ecosistemi e di ridisegnare le filiere produttive e i territori nel loro complesso. Ecco perchè l’agroecologia di Via Campesina è politica ed è per questo che è necessario tracciare una linea di demarcazione: se si sente l’esigenza di sottolineare l’esistenza di una “nostra” agroecologia è proprio perché qualcun altro sta cercando di appropriarsi del termine e delle sue implicazioni.

Secondo l’organizzazione contadina è in corso a livello globale un tentativo di cooptazione e di istituzionalizzazione del modello agroecologico da parte delle èlites politiche ed economiche, che puntano a depotenziarne gli aspetti politici e a riutilizzare a proprio vantaggio solo alcuni aspetti tecnici.

Il rischio c’è ed è concreto. È da tempo, ormai, che il sistema agroindustriale ha acquisito la capacità di riassorbire le istanze critiche che lo riguardano e a riciclarle all’interno del proprio repertorio produttivo e di marketing. E continua a farlo ogni volta che dalla società emergono nuove richieste o preoccupazioni.

Basta entrare in un supermercato qualsiasi per rendersi conto di quanti marchi alimentari hanno attivato la loro linea bio o dell’ossessivo richiamo sulle confezioni alla salubrità e sostenibilità dei prodotti: allevamento a terra, no ogm, no olio di palma…

Tutto può diventare segmento di mercato se estrapolato dal paradigma etico-politico che ne sta alla base e ripulito dai suoi aspetti più incisivamente innovativi. Così, per esempio, persino un metodo di produzione come quello biologico, che nasce come strumento di tutela delle risorse naturali attraverso la ricerca di un equilibrio tra attività produttiva ed ambiente, può venire risucchiato in questo vortice. Ciò che ne resta non è una serie di principi che regolano il complesso rapporto tra uomo ed agroecosistema o una critica dell’agroindustria, ma una diversificazione puramente tecnica rispetto all’agricoltura convenzionale sulla base del settore di mercato di riferimento: invece del fertilizzante minerale si usa quello più organico, invece del pesticida di sintesi vengono utilizzati altri metodi di lotta, ma nulla di più. Ciò lo rende compatibile con filiere lunghe e poco trasparenti, con la monocoltura, lo sfruttamento del lavoro e processi produttivi industriali. Se il termine biologico e le sue acquisizioni hanno ancora un senso (e per noi ce l’hanno), è altrove che questo va ricercato, in altri circuiti economici, nel dialogo e nell’integrazione proprio con l’approccio agroecologico.

Non solo gli attori economici, ma persino il mondo politico e istituzionale ha imparato piuttosto bene a muoversi su questo terreno, anche qui non tanto nell’ottica di una trasformazione complessiva delle campagne ma per correggere timidamente gli eccessi dell’agricoltura industriale mantenendola allo stesso tempo compatibile con le logiche del mercato globale.

A livello europeo la nuova Politica Agricola Comunitaria introduce alcuni elementi che vanno in questa direzione, a partire dal concetto di greening nel quadro dei pagamenti diretti. E non solo. I Piani di Sviluppo Rurale dal canto loro incentivano, fra le altre cose, pratiche che in questo caso richiamano proprio lo spirito dell’agroecologia: sotto il nome di agricoltura conservativa e con lo scopo dichiarato di salvaguardare la fertilità naturale dei terreni si punta sulla riduzione delle lavorazioni attraverso semina su sodo ed altre tecniche. Tutto bene, se non fosse che per come si configurano, questi interventi non escludono l’uso di diserbanti per il controllo delle infestanti e, anzi, in alcuni casi se ne può prevedere persino un aumento. È evidente, ancora una volta, come estrapolando una tecnica da una visione di più ampio respiro se ne può attenuare la radicalità o addirittura rovesciarne il senso. Ecco allora che i timori di Via Campesina iniziano ad avere un risvolto concreto.

C’è però chi ha fatto un passaggio ulteriore. È infatti del ministro francese dell’Agricoltura Stèphane Le Foll la proposta di legge sull’agroecologia approvata nel 2014 per rilanciare il settore agricolo sull’idea che la natura e l’ambiente non sono un’ostacolo bensì alleati preziosi e punti di forza per la competitività.

Occorre perciò dirlo in maniera netta e chiara: l’agroecologia, a meno che non se ne voglia snaturare il senso profondo, in nessun modo è compatibile con le logiche e le strutture di potere proprie dell’agricoltura industriale, del Mercato e della GDO. L’agroecologia o è contadina o non è. Diversificazione, economia di risorse, intensificazione basata sul lavoro sono solo alcuni dei principi, già di per sé agroecologici, che caratterizzano l’agricoltura contadina.

Ma non ci possiamo accontentare di questa affermazione e di una superficiale ricerca delle assonanze tra il modo contadino di fare agricoltura e l’apparato teorico e pratico dell’agroecologia. Nessuno, nemmeno in ambito contadino, può ritenersi assolto dalla necessità di articolare il tema in maniera più estesa ed approfondita. La sua riduzione a pura tecnica è infatti un rischio in cui è facile incorrere anche negli ambienti in cui più alta è la consapevolezza rispetto a tali questioni. È facile pensare che per diventare “agroecologici” sia sufficiente sostituire alcune pratiche agronomiche con altre. Certo che quello tecnico è un lato dirimente della questione, ma sarebbe persino troppo semplice ed elusivo fermarsi ad esso; anche perché faremmo esattamente il gioco di chi cerca di cooptare la pratica agroecologica

Per questo non possiamo fermarci a considerare l’azienda agricola come l’unità in cui il cerchio agroecologico si apre e si chiude. Nessuna singola esperienza, nemmeno tra quelle più avanzate, può bastare a se stessa. Non basta la buona volontà di ciascuno e la sommatoria delle sperimentazioni virtuose per costruire un’alternativa di sistema.

Il punto cruciale è allora proprio la comprensione della portata politica dell’agroecologia e la necessità che questa si faccia “movimento” affiché sia davvero in grado di parlare al futuro.

Viviamo ai tempi del cambiamento climatico e di una profondissima crisi ecologica e non possono esistere “isole felici”. Il degrado degli ecosistemi riguarda e colpisce tutti allo stesso modo e non ci sono espedienti tecnici per sottrarsi a questa dura realtà. La risposta non può dunque che essere collettiva e, per di più, non può riguardare solo i contadini.

L’agroecologia in questa ottica ha a che fare con la capacità di progettare i territori e custodirne le risorse in maniera complessiva, immaginando processi che coinvolgano attivamente i produttori ma che siano allo stesso tempo in grado di trascendere i confini delle singole unità produttive.

Tutto ciò evidentemente chiama in causa vari aspetti, oltre all’organizzazione della produzione all’interno delle aziende agricole: la gestione politica del territorio; le politiche agricole e la necessità di indirizzare i loro sforzi e risorse verso il riconoscimento e la promozione dell’agricoltura contadina piuttosto che verso l’agroindustria; la ridefinizione della divisione territoriale della produzione con il superamento dell’iperspecializzazione e della monocoltura; i rapporti tra ricerca scientifica e produzione, tra saperi scientifici e saperi locali; le forme e le modalità del consumo alimentare (e non solo) e dunque le relazioni tra città e campagna.

La conversione in senso agroecologico della produzione e dei territori ha bisogno di risorse e di un enorme sforzo collettivo. L’efficacia di questo approccio si misurerà proprio sulla sua capacità di cogliere i nessi tra le diverse questioni senza perdere così di vista gli obiettivi di fondo e il senso complessivo e strategico della proposta: per evitare di consegnarla su un vassoio d’argento ai suoi avversari; per riuscire ad affrontare sfide di portata storica e di carattere globale.


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