Che fare, dopo il decreto sicurezza

Mimmo Perrotta e Savino Reggente 
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 60 de “Gli asini” (http://gliasinirivista.org)

 

Già due anni fa, con l’approvazione del dl 17/2017, detto Minniti-Orlando, si è operata una politica che ha mirato a restringere e filtrare pesantemente l’ingresso di migranti, in particolare via mare, anche attraverso gli accordi siglati con diversi paesi africani e la messa fuori gioco delle Ong che operavano salvataggi in mare attraverso l’uso politico della giustizia penale. Con la lg. 113/2018, il cosiddetto decreto Salvini, questa politica si è fatta più evidente e spregiudicata. Per quanto gli arrivi via mare non si siano mai interrotti del tutto, la nuova legge sta già producendo importanti effetti sulla popolazione migrante presente sul territorio e sul sistema d’accoglienza. In parte, questi effetti sono prevedibili. Pur considerando le diverse declinazioni locali, da qui a un anno si può stimare che diverse decine di migliaia dei migranti oggi accolti (circa 136mila al 31 dicembre 2018 – un numero già molto diminuito rispetto ai 183mila di un anno fa) perderanno il diritto a restare nel sistema dell’accoglienza.

In primo luogo, il decreto sancisce che i titolari di “protezione umanitaria” non saranno più accolti nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas, gestiti dalle prefetture) o nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar, gestiti dai comuni). Va ricordato che, dei tre tipi di permesso di soggiorno che un richiedente asilo può ottenere, quello per “protezione umanitaria” è il permesso che prevede una protezione più debole e, allo stesso tempo, quello che è stato concesso maggiormente negli ultimi anni: tra il 2016 e il 2017, su un totale di 172.629 domande esaminate, a 39.145 richiedenti è stato riconosciuto un permesso di soggiorno per “protezione umanitaria” (il 22,7%), a fronte di 11.635 permessi come “rifugiati” (6,7%) e 19.753 permessi per “protezione sussidiaria” (11,4%) – questi ultimi rappresentano le forme di protezione più significative. Questo ci deve ricordare, peraltro, che la maggior parte delle domande, più di centomila in due anni, quasi il 60%, ha avuto un esito negativo, almeno al primo grado di giudizio. Il 60% dei richiedenti asilo, cioè, dopo mesi (o anni) nel sistema di accoglienza italiano, si è visto rispondere che non ha diritto a un permesso di soggiorno come migrante “forzato” e, salvo ricorso, è diventato un migrante irregolare.

Un primo effetto del decreto sicurezza, quindi, è che il 20% circa dei richiedenti asilo che hanno ottenuto un permesso di soggiorno per “protezione umanitaria” e che sono ancora presenti nel sistema di accoglienza dovranno uscire dai Cas e dagli Sprar, come in effetti sta già accadendo in moltissime città d’Italia, sebbene alcuni giudici stiano accogliendo dei ricorsi contro questa prassi.


In secondo luogo tra le domande che verranno esaminate nei prossimi mesi aumenterà ancora il già cospicuo numero di dinieghi, a causa della abolizione proprio del permesso di soggiorno per “protezione umanitaria”, solo in parte sostituito da quello per “casi speciali” (persone bisognose di cure mediche, vittime di violenza domestica o grave sfruttamento lavorativo, eccetera). Nei prossimi mesi, dunque, il numero di dinieghi potrebbe avvicinarsi notevolmente all’80% delle domande esaminate.

Dunque, molti migranti – come sta già accadendo e come è stato denunciato da più parti – finiranno per strada, dopo i mesi trascorsi nel sistema di accoglienza, alcuni con un permesso di soggiorno per “protezione umanitaria”, altri (probabilmente più numerosi) come irregolari, che si uniranno alle decine di migliaia che sono già usciti dai centri come irregolari negli anni scorsi. Quanti tra loro hanno reti sociali di riferimento (di familiari, connazionali, amici) potrebbero trovare più facilmente una casa e un lavoro; i molti che invece non possono contare su queste reti correranno seriamente il rischio di diventare senza fissa dimora o ingrosseranno le baraccopoli e le tendopoli che da anni punteggiano le aree rurali italiane (il foggiano, la Basilicata, la Piana di Gioia Tauro, la zona di Saluzzo…), alla ricerca di giornate di lavoro in agricoltura, come ha già denunciato la Caritas su “Avvenire”. Inoltre, poiché il permesso per “protezione umanitaria” non potrà essere rinnovato, quanti ne sono in possesso pian piano diventeranno irregolari, a meno che non trovino un lavoro stabile che consenta loro di convertirlo e ottenere un permesso per motivi di lavoro subordinato, cosa particolarmente complicata e che, per di più, in passato ha dato origine alla compravendita di contratti di lavoro fasulli con imprese compiacenti e pronte a lucrare sulla vulnerabilità giuridica di questi migranti.

In più, ai richiedenti è negato il diritto all’iscrizione anagrafica e, conseguentemente, a tutti i servizi a essa connessi (ad esempio, la sanità e il centro per l’impiego). Ciò comporta un prevedibile aumento di persone che faranno accesso ai servizi emergenziali, come il servizio bassa soglia, dormitori, pronto soccorso, eccetera, con un costo economico e sociale che sta mettendo in forte agitazione molte amministrazioni locali.

Come è stato già detto da molti, il sistema di accoglienza subirà un drastico ridimensionamento: nei Cas (che oggi rappresentano i tre quarti dei posti di accoglienza disponibili) potranno essere accolti solo i richiedenti asilo, il cui numero è in diminuzione netta a causa degli accordi siglati nell’estate 2017 da Minniti con le fazioni libiche, della chiusura dei porti italiani decisa nell’estate 2018 da Salvini e, in ultimo, dalla messa a regime degli hotspot collocati nei punti di arrivo, che in poche ore decreteranno chi avrà o meno legittimità per chiedere protezione internazionale sul territorio italiano. Negli Sprar potranno essere accolti solo quanti ottengono un permesso di soggiorno come rifugiati o per protezione sussidiaria (oltre che i minori non accompagnati), che negli ultimi anni hanno rappresentato meno del 20% delle domande esaminate. Molti centri e progetti d’accoglienza verranno quindi chiusi (alcuni sono stati già chiusi) e molte cooperative non parteciperanno più ai bandi. Un dossier della cooperativa InMigrazione ha stimato, sulla base dell’analisi dei nuovi bandi che prevedono contributi non più di 35 euro al giorno per ogni migrante accolto, ma con una forbice compresa tra i 19 e i 26 euro, che per molte organizzazioni non sarà più possibile operare nel settore dell’accoglienza. L’obiettivo è segregare i migranti in grandi centri, capaci di operare economie di scala ma per nulla efficaci dal punto di vista del reale inserimento dei richiedenti asilo. Infatti, i primi servizi eliminati riguardano la cura e tutela psico-sanitaria, l’assistenza alla vulnerabilità, corsi di formazione e di lingua, tirocini, iniziative per l’“integrazione”, eccetera. Lo stesso dossier prevede che 18mila tra lavoratrici e lavoratori dell’accoglienza rimarranno disoccupati nei prossimi mesi, la metà del totale del personale di questi centri (a molti già non è stato rinnovato il contratto di lavoro, anche per effetto del “decreto dignità”).

Il decreto sicurezza ha sollevato una vasta e importante opposizione, non solo da parte di organizzazioni da tempo impegnate sul tema, come l’Asgi e associazioni solidali coi migranti o impegnate nell’accoglienza, ma anche da parte di molti sindaci. Alcune cooperative hanno deciso di disobbedire, non mandando fuori (almeno fino alle feste di natale!) i titolari di “protezione umanitaria” che non avrebbero più diritto a un letto.

In questo quadro, la discussione su cosa fare diventa enormemente pressante ed è su questo che vogliamo dare un contributo. A nostro parere, quello che non bisogna fare in questa fase è limitarsi a rivendicare un ritorno al sistema di accoglienza pre-Salvini. Questo sistema di accoglienza era stato criticato ampiamente: si vedano le moltissime violazioni dei diritti dei migranti ospitati nei centri, denunciate dalla campagna LasciateCIEntrare, nonché le inchieste giudiziarie su casi di corruzione e malaffare, ma soprattutto gli interventi pubblicati su questa rivista, nei quali è stato più volte analizzato il fatto che questo sistema di accoglienza è dannoso e inutile tanto per gli “accolti” quanto per gli operatori (rimandiamo ad esempio agli articoli di Marco Carsetti e di Debora Marongiu sul numero 25, 2015, e di Fausto Stocco e Luigi Monti sul 37, 2017), nonostante vi siano esempi positivi, virtuosi e ammirevoli di cooperative che lavorano bene nell’accoglienza.

Quei limiti – che da tempo erano stati analizzati sugli “Asini” e non solo – hanno contribuito a provocare e a legittimare una risposta pesantissima, di ottusa intolleranza, da destra, da parte del governo attuale. Per questo ha poco senso tornare a chiedere “accoglienza per tutti”. Ricordiamo due o tre questioni centrali. Primo: una parte non piccola dei migranti che negli anni scorsi hanno presentato domanda di protezione umanitaria in Italia non erano “partiti” come migranti forzati in senso stretto. Sono le politiche europee di chiusura delle frontiere che li rendono “profughi”, nel duplice senso che li obbligano, da un lato, a un viaggio pericolosissimo nel Sahara e nel Mediterraneo, durante il quale molto probabilmente sono stati imprigionati e torturati e hanno rischiato la vita, e, dall’altro lato, a presentare domanda di asilo come unico modo possibile di accesso al territorio europeo con un qualche tipo di legalità, essendo chiusi i canali di ingresso regolare per motivi di lavoro. Sono quindi le politiche di chiusura delle frontiere – e in generale le politiche migratorie, le restrizioni alla mobilità internazionale degli individui – che vanno messe al centro delle nostre analisi e delle nostre rivendicazioni: in Libia sono oggi bloccati centinaia di migliaia di migranti subsahariani, in alcuni casi chiusi in prigioni e centri di detenzione. Cosa fare per loro e con loro?

Secondo: la creazione di un numero notevole di immigrati presenti irregolarmente sul territorio italiano – che sarà uno degli effetti di questo decreto – era un effetto anche di quel sistema che questo decreto destruttura, se pensiamo che, nel 2016-7, il 60% dei richiedenti asilo ha ricevuto un diniego. Perché tornare a un sistema che ha già prodotto più di centomila irregolari in due anni? Non è possibile – ad esempio – rivendicare invece un diritto alla mobilità per tutti, chiedere che tutti i migranti che escono dai centri di accoglienza ricevano un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, che consenta loro di spostarsi liberamente nel territorio europeo?

Bisogna ripartire da pratiche che abbiano senso, dove e come possibile, dentro e fuori il sistema di accoglienza.

Per chi opera a vario titolo dentro il sistema di accoglienza, è necessario chiedersi anzitutto, in maniera autocritica, quanto il proprio operare negli scorsi anni sia stato incisivo. Inoltre, è probabilmente il momento di incominciare a pensare “dall’interno” ma stando con la testa fuori. Il che vuol dire, ad esempio, rendere i servizi costruiti in questi anni attraverso i fondi pubblici destinati a vario titolo all’accoglienza accessibili a tutta la popolazione migrante; consapevoli del proprio ruolo, esercitare resistenze rispetto alle molteplici istituzioni che si hanno di fronte (statali, mediche, giuridiche, datoriali), a partire dal rispetto del proprio lavoro e professione; uscire da una bolla che in non pochi casi porta a costruire un’immagine di se stessi come eroi o martiri. Occorre soprattutto tornare a rivendicare con chiarezza e forza, per i migranti, il diritto alla mobilità, alla scelta del posto in cui vivere, in modo regolare e, per quanti ne hanno necessità, con dei servizi di assistenza (sanità, mediazione, eccetera), che è altra cosa dall’assistenzialismo. Per far ciò occorrono tuttavia delle scelte che sono il frutto di una consapevolezza che è invece forse ancora troppo acerba tra chi lavora in questo settore. Oltre a riconoscersi ed essere riconosciuti/e come persone che esercitano una professione e un ruolo sociale, è il momento di acquisire coscienza di sé come lavoratori e lavoratrici, titolari di diritti esigibili attraverso specifiche rivendicazioni e lotte. Queste lotte non riguardano né una presunta indispensabilità di questo ruolo (e ancor meno di chi lo ricopre); né, d’altro canto, un attaccamento al posto di lavoro inteso solo come salario, benché totalmente legittimo. Queste lotte dovrebbero essere universali e comuni, perché non è più sostenibile, per fare solo un esempio, la contraddizione che porta gli operatori ad accompagnare i beneficiari presso le sedi sindacali e poi constatare la totale assenza di rappresentanti o assemblee sindacali nelle cooperative, ancor più ai tempi dei decreti sicurezza e dignità. Rifondare l’accoglienza vuol dire allora non già ripensare uno specifico e delimitato settore dei servizi alla persona, ma rifondare e praticare un welfare aperto, equo e includente per tutte le persone.

Fuori dal sistema di accoglienza, ci sono già molti esempi di lavoro virtuoso di e con i migranti, non solo richiedenti asilo. Accoglienza in famiglie e case private, scuole di italiano in città e campagne, occupazioni di case, sportelli di assistenza e consulenza, cliniche legali, progetti economici mutualistici, solidali e di base, recupero di spazi pubblici: le pagine degli “Asini” hanno spesso raccontato pratiche di questo tipo. È su queste pratiche che secondo noi è necessario fare leva ora, cercando di alzare la testa, coordinarsi e, soprattutto, legare le proprie pratiche a una discussione più ampia e più generale su quali politiche vogliamo sostenere e rivendicare.

È necessario – come alcuni hanno già cominciato a fare – discutere, ragionare, collaborare con i migranti che sono in Italia da più anni e che hanno altri tipi di problemi (l’accesso alla cittadinanza; lo ius soli per le seconde generazioni; le discriminazioni e lo sfruttamento lavorativo…) e cercare alleati tra essi e le loro associazioni. Con la consapevolezza, da un lato, che spesso gli obiettivi e le visioni del mondo sono differenti ma che, dall’altro lato, il loro contributo è centrale se si vuole evitare di parlare di migrazioni solo tra “autoctoni”.

Di più, è necessario essere consapevoli che un movimento che rivendica diritti per i migranti non può concentrarsi solo sulla “accoglienza”. Ma deve porsi il problema di costruire (o collaborare con) altri movimenti. È necessario ricostruire un movimento pacifista, contro tutte le guerre, per evitare che delle persone siano costrette a partire a causa di conflitti: una ricerca dell’Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa ci ha recentemente ricordato che, poco più di una ventina d’anni fa, al tempo della guerra nella ex-Jugoslavia, decine di migliaia di profughi furono ospitati in Italia al di fuori di qualsiasi intervento delle istituzioni, a opera di organizzazioni di base che erano allo stesso tempo impegnate nel movimento pacifista, che interveniva direttamente nei territori in conflitto dall’altro lato dell’Adriatico (vedi l’articolo di Marzia Bona su “Meridiana”, n. 86, 2016). È necessario un movimento ambientalista, consapevole che molti migranti nei prossimi anni saranno costretti alla mobilità a causa dei cambiamenti climatici, come la siccità nell’Africa subsahariana. È necessario ricostruire quello che pochi anni fa era il movimento altermondialista, e prima ancora terzomondista, che rimetta l’attenzione sulle politiche globali che creano disuguaglianze tra gli stati, sulle multinazionali dei paesi occidentali e della Cina – anche italiane – che sottraggono risorse e devastano i territori del Sud del mondo, sostenendo così gli stili di vita consumistici dei cittadini dei paesi ricchi e, allo stesso tempo, obbligando molti cittadini dei paesi poveri a diventare migranti (altro che “aiutiamoli a casa loro”!). È necessario che il movimento per i diritti dei migranti stringa relazioni sempre più forti con i sindacati dei lavoratori – come è già avvenuto e sta avvenendo, soprattutto a opera dei sindacati di base – al fine di contrastare le discriminazioni subite dai lavoratori non italiani e allo stesso tempo la stessa crescente debolezza dei lavoratori autoctoni. È necessario allearsi con i movimenti di contadini e consumatori critici che costruiscono un’economia solidale e sostenibile e che sono stati sensibili alle condizioni di vita e di lavoro dei migranti.

Insomma, è necessario reagire al decreto sicurezza, al razzismo che cresce nella società italiana e che viene alimentato ad arte da molti rappresentanti del governo e della maggioranza in parlamento, non rivendicando un impossibile (e, probabilmente, inutile e dannoso) ritorno al sistema di accoglienza che abbiamo conosciuto tra il 2011 e il 2018, ma rinnovando e ripensando da cima a fondo le pratiche di “accoglienza”, costruendo collaborazioni con le associazioni di migranti e con i movimenti e ragionando su quali politiche vogliamo rivendicare e sostenere, partendo da queste pratiche e da queste collaborazioni.

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